recensione diMarco Valchera
Al limite della notte
Al limite della notte, per ora l’ultima fatica dello scrittore americano, vincitore del premio Pulitzer per Le ore, Michael Cunningham, è una meditazione sulla possibilità di scegliere come criterio dell’esistenza umana la bellezza pura, quel tipo di bellezza che possa, idealmente, salvare il mondo. Il protagonista, Peter, un gallerista di grande successo, è sposato da ventuno anni con Rebecca, importante editor newyorchese. La loro vita sembra apparentemente perfetta finché, un giorno, irrompe nelle loro esistenze il fratello problematico della donna, Ethan, soprannominato Erry, “l’errore”. Incredibilmente affascinante, libero dal senso del pudore e da regole, con un passato di dipendenza da droghe, la sua presenza inquieta Peter, tanto da mettere in discussione tutte le scelte fatte finora. Erry è l’emblema della bellezza, diviene la sua opera d’arte in carne ed ossa, il pezzo migliore della sua collezione. Erry ama Thomas Mann, e La morte a Venezia è, apertamente, il modello scelto per questo romanzo. L’amore che, infatti, Peter prova per Ethan non è altro che contemplazione di una bellezza salvifica, così come lo era quello di Gustav von Aschenbach, l’anziano scrittore, per il giovane ed angelico polacco, Tadzio. Il turbamento passionale di Peter, in realtà, esula da una dimensione prettamente sessuale: Erry non è visto solo come un ragazzo, ma come colui che incarna la perfezione delle forme e delle linee, la manifestazione sublime dell’arte, che, invece, nella sua dimensione contemporanea, con tutte le sue stravaganze, non riesce più a sconvolgere né a dilettare l’uomo. Per capire meglio la figura del protagonista, bisogna guardare la vita con i suoi occhi di uomo quarantenne, che ha piantato radici familiari (sebbene il rapporto con la figlia sia inesistente) e lavorative, cercando una stabilità che ora sembra entrare in crisi. Cunningham riflette, dunque, anche sulla crisi di mezza età: Ethan rappresenta la libertà, la passione, il sesso, ma soprattutto la giovinezza. La splendida scena del bacio in riva al mare tra i due e i conseguenti turbamenti d’animo e dubbi di Peter non mostrano altro che un impulso, un desiderio di voler tornare indietro e cercare di rivivere ossessivamente la giovinezza perduta e ricreare un’esistenza meno piatta e grigia rispetto a quella con Rebecca. In tutto ciò, quindi, l’omosessualità diviene un mero strumento di riflessione sulla possibilità di ripensare alla propria vita e alle scelte fatte: al posto di Erry avremmo potuto trovare una ragazza o un’altra donna, ma il senso complessivo del romanzo sarebbe rimasto inalterato.
Qua e là si percepisce una certa ripetitività di fondo, soprattutto nel voler riproporre, per la terza volta, un romanzo, in cui si senta, così preponderante, l’ispirazione ad un mostro sacro della letteratura: Virgina Woolf per Le ore, Walt Whitman per Giorni Memorabili, ed ora Thomas Mann. Ma Cunningham, come sempre, ci regala una scrittura elegante e fluida, entrando, con una tangibile ironia, nel mondo dei collezionisti d’arte e dei galleristi e rappresentando efficacemente l’accrescere dei patimenti del protagonista di fronte alla possibilità di amare un altro uomo e delle gioie per aver scoperto la sua Olympia di Manet nella fisicità scultorea di Ethan.