recensione di Mauro Giori
Cloudburst
Il cinema, si sa, non è un medium per vecchi e lo è anche meno quello gay, mediamente giovanilistico ed edonistico quant’altri mai. Gran parte dei film si preoccupa di raccontare sì e no solo metà della vita, quella che coincide con la maggioranza del pubblico delle sale. Perciò il solo fatto di vedere l’ottantenne Olympia Dukakis e la quasi settantenne Brenda Fricker nelle parti di due donne che hanno gli anni delle loro interpreti, e fanno coppia, basta a indurre a occasionale commozione.
La storia è un incrocio fra Il lago dorato in versione lesbo e un road movie hollywoodiano a caso in versione senile. Il che suona un po’ come un paradosso, giacché di solito l’archetipo del viaggio come scoperta, iniziazione e maturazione si applica per ovvie ragioni meglio alla gioventù e all’età della ricerca di se stessi piuttosto che a quella dei bilanci, degli acciacchi e dei ricordi.
Generalmente questi film grondano nostalgia, con qualche graffio umoristico che è la versione gentile della rassegnazione di fronte all’inevitabile decadenza. Fitzgerald – già autore de Il giardino dei ricordi – inverte le dosi e predilige i toni da commedia leggera, screziati di una nostalgia sempre trattenuta, anche nel momento in cui affronta questioni politiche e d’attualità, a cominciare dai matrimoni gay.
Se poi i racconti senili in genere trasudano filosofemi e motti sapidi in cui chi inizia a intravedere un luccichio in fondo al tunnel della vita cerca di sintetizzare quel poco che ne ha capito, qui abbiamo un’ottantenne che guarda porno, scoreggia a letto, molesta per scherzo la sua compagna con un dildo, ha il senso dell’umorismo di uno scaricatore di porto e si fa religiosamente seria solo per professare la propria reverenza per k.d. lang. Seria ma non più fine: «If I were on death row I’d request my final meal be right between k.d. lang’s legs». Dot è decisamente più dolce e solare, ma è altrettanto aliena da qualsiasi scandalo.
È anche questo un modo per dire qualcosa sulla vita e la lente dell’età offre una prospettiva a suo modo straniante su ciò che le giovani generazioni sono ormai già abituate a dare per scontato: a Dot e Stella impone uno sforzo di adeguamento tutt’altro che semplice il ritrovarsi in un mondo dove il riconoscimento di legami di coppia gay non è più inammissibile, le discrezioni della loro generazione non sono più necessarie e si può trovare un intero scaffale di porno lesbici anche alla stazione di servizio più sperduta del più sperduto paese di provincia.
Poi, a voler sottilizzare, il racconto è piuttosto esile, la commedia talora cede il passo alla faciloneria della farsa (ad esempio nel caso della macchietta del padre di Prentice) e la Dukakis è un po’ sopra le righe (si direbbe che il regista non abbia previsto il risultato esponenziale dato dalla somma fra le richieste di un ruolo di butch stereotipata – mascolina, sboccata e rude – e l’energia già propria dell’attrice).
Il film si guarda comunque con piacere e partecipazione. E non vi è dubbio che «Jesus Anne Heche Christ» sia la più militante imprecazione degli ultimi due lustri (evidentemente è ancora molto lontano il momento del perdono, o almeno dell’oblio, per il “tradimento” della Heche nei confronti della amatissima Ellen Degeneres e dell’intera comunità gay americana).