recensione diMauro Giori
Balletti verdi a Piacenza
Uno dei tanti film a episodi che all’epoca andavano per la maggiore sfornando piccole satire dell’Italia democristiana, dei suoi pruriti, del suo sforzo di tenere in piedi una moralità ormai superata e delle sue piccole e grandi corruzioni. Semplicistica finché si vuole, questa terzina ha qualche momento efficace non tanto nel primo episodio (una forzata gita aziendale di un fantozzianesimo ante litteram) quanto nel secondo e nel terzo (in cui Sordi interpreta il celebre personaggio di Dentone, che né una commissione maldisposta né le raccomandazioni altrui riescono a far scartare a un concorso pubblico della Rai).
Nell’episodio centrale, intitolato Il complesso della schiava nubiana e diretto da Franco Rossi, Ugo Tognazzi interpreta invece Gildo Beozzi, un piccolo burocrate democristiano moralmente ineccepibile sino al punto da sacrificare la moglie a una non richiesta vita di austerità. La sua carriera è messa però a repentaglio quando ricompare improvvisamente un film in cui la donna, prima del matrimonio, aveva interpretato una schiava in déshabillé. Ossessionato dalla pellicola, Gildo si espone sempre di più e del tutto inutilmente nel timore che qualcuno possa riconoscere la sua consorte sullo schermo e montare uno scandalo. Finisce così col cascare da una padella immaginaria in una brace reale quando, dopo essersi fatto proiettare il film in privato, aver fatto trasferire in Unione Sovietica un censore e aver importato tutte le copie dal coproduttore egiziano mediante uno scambio malvisto dai superiori, inseguendo il fotografo di scena per recuperare i negativi finisce del tutto inconsapevolmente nel bel mezzo di una festa per omosessuali in una villa fuori Piacenza. Siccome improvvisamente irrompe la polizia, Gildo finisce su tutti i giornali, rovinato dalla sua stessa paranoia. Anche se la notizia titola «Corruzione» (pur sfottendo la censura la si teme e quindi non si vuole essere troppo espliciti), è evidente che si sta pensando a quello che era successo cinque anni prima a Brescia in occasione dello scandalo dei cosiddetti “balletti verdi”. Anzi, si cerca di rimetterli in scena. Gildo vi arriva attraverso le fraintese allusioni di un antiquario (categoria professionale invariabilmente associata all’omosessualità nei film di questi anni, almeno quanto accade per parrucchieri e sarti): l’uomo dapprima si mostra diffidente, ma si rende disponibile dopo che ha visto da lontano Gildo passarsi il burro di cacao sulle labbra, convinto evidentemente che si tratti di rossetto (omosessualità e travestitismo vanno sempre a braccetto nella commedia italiana). Un informato autista lo porta quindi alla villa e risponde per lui correttamente alla domanda in codice al citofono. Infine, Gildo si sente chiedere da un giovane lezioso se sia «corolla o pistillo» e si trova in mezzo a borghesi di mezza età in abito elegante e a giovani compiacenti in costume. Ma si lascia solo immaginare cosa debba succedere tra i primi e i secondi perché la festa è interrotta dall’irruzione della polizia: le luci vengono spente e solo i fari dei poliziotti lasciano intravvedere il panico e il fuggi fuggi generale.
Mettendo insieme i pezzi, come si vede, non si esce dai canoni restrittivi con cui gli omosessuali erano rappresentati sistematicamente nel genere comico, e di norma più in generale nel cinema italiano dell’epoca, per tacere dei forti contrasti di luce che vorrebbero dare qualche tonalità torbida alla scena, ma l'episodio rimane piuttosto interessante come testimonianza dell’eco lasciata nell’immaginario dai balletti verdi.