recensione diMauro Giori
Tout contre Léo, Léo contro tutto
Anzitutto non si può che apprezzare una televisione in grado di supportare la produzione di film come questo, capace di affrontare in modo corretto omosessualità e Aids: vedere Tout contre Leo e pensare alla nostra televisione ci dà la misura di un abisso di civiltà. Come del resto il fatto che gli americani, bisognosi di più zucchero che fiele, hanno tradotto il titolo in Close to Leo, ribaltandone il senso. Ma Honoré non mette l’accento tanto sulla vicinanza della famiglia a Leo quanto sulla sostanziale solitudine del giovane di fonte alla malattia, che non riesce ad accettare e che la comprensione dei famigliari non lo aiuta a digerire. Non troverà aiuto nemmeno nell’ex fidanzato che, essendo stato da lui piantato oltre un anno prima, non gli dà nemmeno la possibilità di parlare. E così, in questa famiglia apparentemente di larghe vedute, dove tutti (mamma, papà e tre fratelli) hanno già accettato l’omosessualità di Leo e tutti cercano di comprenderne ora il dramma, tutti si ritrovano soli a elaborare in anticipo un lutto che nessuno vuole ancora ammettere, ma che sentono vicino.
L’idea era migliore dell’esecuzione, ed era potenzialmente bella (anche se facile al melò) quella di mettere a fuoco in particolare il percorso del piccolo Marcel, il bambino che si cerca inutilmente di proteggere tenendolo all’oscuro tanto della malattia di Leo quanto del suo orientamento sessuale.
Come altri registi francesi della nuova generazione, Honoré confonde però spesso dramma e isteria: più insegue il primo, più non sa fare di meglio che costringere la madre a indulgere in scenate nevrotiche (per tacere del bambino, ma non ne vanno esenti nemmeno gli altri personaggi), sino a svenire sul prato quando Leo parte per Parigi alla ricerca del suo ex. Forse è solo una forma di melodramma nazionale che si esporta male, o la nuova veste di una neo-incomunicabilità e di un neo-esistenzialismo di cui potremmo fare a meno, ma in ogni caso suona artificioso e di dubbio effetto. I cedimenti della scrittura non consentono poi alla sceneggiatura di sostenere in modo convincente la tessitura complessiva. Troppi, in particolare, sono i personaggi: dei tre fratelli, uno rimane sullo sfondo ed è pressoché inutile, dell’altro emerge solo qualche frustrazione e un affetto dalle sfumature ambigue.
Che Honoré sia un regista ambizioso lo dimostra il successivo adattamento di Ma mère di Bataille, che allo stesso tempo ne conferma tuttavia anche i limiti. A fronte dei quali mi concedo una postilla polemica sulla moda corrente di usare non solo i premi, ma persino la semplice presenza a un festival qualsiasi come fossero riconoscimenti di valore anziché quello che sono, complicità che legano – in circoli oscillanti tra il virtuoso e il vizioso – istituzioni spesso improbabili e improvvisate per politiche locali e autori più o meno alla canna del gas. Sicché non vi è ormai locandina che non possa esibire le sue due belle palmette con in mezzo il nome di un festival qualsiasi. Ma quando il festival è quello di Borgo Vecchio di Sopra sulla Destra, ignoto anche agli abitanti di Borgo Vecchio di Sopra sulla Sinistra, per tacere di quelli di Borgo Vecchio di Sotto, aumenta solamente la percezione di un prodotto consapevole delle proprie lacune e che si cerca di promuovere con mezzucci di dubbio gusto. Qui si raggiunge il culmine: vi è infatti addirittura una palmetta universale, e proporzionalmente ridicola, nella quale leggiamo nientemeno: «Récompensé dans les festivals du mond entier». Di nessuno dei quali sembra essere però rimasta traccia nell'universo.