recensione diMauro Giori
Un altro pianeta, un altro cinema
L’aver fatto sapere a tutti che il film è stato realizzato in una settimana soltanto e soltanto con 890 euro mi suona come un mettere le mani avanti, nella consapevolezza di consegnare un prodotto dalle molte lacune.
Un altro pianeta da un altro pianeta sembra effettivamente venire, un pianeta in cui tamarro è sexy, la peggior simulazione di sesso mai vista, ripresa con un primo piano laterale dei due interessati in piedi, passa per essere scabrosa e non si dà panoramica che non traballi sull’asse. E dove i gay alla fine vanno con le donne, che è meglio.
Irrita, nella sceneggiatura dello stesso Tummolini, lo sforzo (chiaramente percepibile come tale) di dare spessore a personaggi talmente risaputi da non avere speranza alcuna di suscitare interesse, cui si aggiunge lo sforzo degli attori che oscillano tra momentanee uscite spontanee e frasi impostate con una fatica che fa soffrire chi le ascolta. E così, ad esempio, dobbiamo sorbirci l’intellettuale che legge saggi Einaudi sulla spiaggia e disserta su Lacan, anche se poi sa al massimo distinguere tra conscio e inconscio e quando interroga l’amica sul suo terapeuta dà per scontato che debba essere o freudiano o jungiano, che per un esperto (di Lacan oltretutto) pare una forbice un po’ limitata. Sullo stesso piano metterei il racconto del più noioso dei sogni, neanche fosse Eyes Wide Shut, con dettaglio di lei che poi piange non vista da nessuno giusto perché si capisca che, sebbene solare, è un personaggio problematico.
Questa è poi l’idea sempliciotta che sta alla base di tutti i personaggi, i quali per qualche ragione non possono essere solo se stessi, ma devono anche nascondere qualcosa di più profondo. È il caso anche del protagonista che, sebbene burbero, sta elaborando il lutto di un grande amore e quindi ha un cuore grande così.
Un cuore tanto grande da sopportare l'infantilismo del ragazzino superficialotto che teorizza sull’amore, sulla relazione, sul suo diritto di alterarsi se a qualcuno la coppia aperta, sbracata e pure sventrata non va a genio, ma tanto fragile da aver bisogno di far filosofia sul proprio libertinaggio.
Un cuore tanto grande da farlo andare alla fine con una donna appena costei gli rivela di essere sieropositiva. Ma cos’è questa, compassione, incertezza, reazione alla delusione, demenziale elaborazione del lutto, terapia riparativa da spiaggia o queer partenopeo del non definiamoci pecché 'int'a vita nun se po' maje sapé?
Anziché costringere tutti i personaggi a rivelarsi il contrario di quello che sembrano per tutto il film, meglio sarebbe stato far sì che si comportassero semplicemente come persone normali: si sarebbe potuto evitare facilmente, ad esempio, lo scontro iniziale fra l’eroe e l’intellettuale che è il trionfo del più puro nonsenso, una scena scritta solo in funzione di quello che deve seguire e con sprezzo di ogni verosimiglianza.
E tutto ciò qualcuno l’ha venduto come una rappresentazione originale, innovativa, provocatoria e non stereotipa del mondo gay e come riprova che anche in Italia esiste un cinema gay, al punto da premiare il film con il Queer Lion di Venezia. Ma il fatto che siamo indietro di lustri rispetto a tre quarti dell’Europa e a quattro quinti del mondo (giusto perché l’Iran fa peggio di noi…) non significa che dobbiamo strillare al miracolo per ogni film fatto col sussidio di disoccupazione che ci arrivi: se il film in questione è inguardabile, inascoltabile e presenta cinque personaggi gay uno più indisponente dell’altro, allora forse non c’è poi così tanto da entusiasmarsi, soprattutto sul piano ideologico. Se quindi il premio deve essere militante e non c’è proprio niente di meglio, ricordo che i premi si possono anche non assegnare.