Salamandre in salsa '68

4 gennaio 2014

Pochi periodi del cinema hanno prodotto risultati più terrificanti del ’68, da cui sono spillati molti film pretenziosi e invecchiati malissimo, spesso politicamente fumosi e ingenui, sovente eroticamente gratuiti. Nonché pieni di lesbiche nevrotiche e discinte da dare in pasto agli spettatori maschi. Le salamandre ne offre un ottimo esempio: le protagoniste sono una fotografa bianca (Ursula) e una modella nera (Utah) legate da un rapporto non solo di lavoro ma anche di passione. Ma siccome sono lesbiche, è il 1969 e il regista vuole fare l’impegnato per non dar l’impressione di voler solo servire donne nude al pubblico, il loro è anche un rapporto di sottomissione, di prevaricazione, di nevrosi (la stessa Ursula continua a dirsi felice e subito dopo infelice, sostiene di amare Utah e subito dopo di odiarla).

Non a caso sulla spiaggia all’inizio incontrano proprio uno psichiatra che si incarica, non richiesto, di curarle. Le due sono sorprese in topless, occasione per il primo dialogo assai rappresentativo di tanti che seguiranno:

Ursula: «Non mi importa niente che un uomo brutto mi veda nuda […]»

Henry: «Cosa vuole… vedo tante donne nude… Sono un medico…»

Ursula: «Ah sì? Ostetrico?»

Henry: «No, psichiatra».

Se a questo punto vi state chiedendo in quali occasioni uno psichiatra abbia necessità di spogliare le sue pazienti, e a quanto pare in quantità, state sbagliando tutto, perché state cercando di dare un senso a un film che non ne ha.

Ma poco dopo c’è di meglio. Quando Henry vede Utah che si allontana vergognosa, esclama: «Allora la femmina è lei! È sempre la femmina che si vergogna in questi ménage», cioè in una coppia lesbica. L’omosessualità è dunque qualcosa di elementare, persino banale, che segue uno schema fisso e uno solo, l’importante è riportarla ai ruoli noti e privarla di qualsiasi autonomia, tanto da poter dare per scontato che una delle due persone coinvolte debba sempre vergognarsi. Poi Henry si rivolge a Ursula: «L’ho imparato curando per vent’anni tipi come lei. […] Ma non la guarirò, vedrà… ama troppo il suo male…». E ancora: «Invece potrei fare qualcosa per la sua amica. È molto infelice, lo sa?». Risposta di Ursula: «Provi a guarirla e io le spacco la faccia». Da cui si deduce che il lesbismo è solo possesso basato su cattiveria e disinteresse per i sentimenti dell’altra. E sì che Henry l’aveva già capito che Ursula è la lesbica maschile!

Ad ogni modo lo psichiatra con l’hobby di spogliare le pazienti “curerà” proprio Ursula. Come? Al solito modo, portandosela a letto mentre lei mugugna frasi del tipo: «Voglio essere una donna normale», «Salvami Henry» e, in corso d’opera: «Sono felice, sono tanto felice che potrei morire».

Utah la prende in parola: il giorno seguente la sventra, dopo aver fatto lo stesso con Henry, dato che i due stavano per andarsene insieme. Ma il duplice omicidio non deriva tanto dal desiderio di vendicare il tradimento quanto dalla conquista della consapevolezza della sua subordinazione razziale. Utah vi è arrivata anche lei grazie a un ragazzo (bianco) che si è portata a letto: queste lesbiche non disdegnano mai gli uomini perché sono lesbiche proprio per loro. Ecco dunque che la gran trama del tessuto narrativo consiste proprio nell’intrecciare omosessualità, colonialismo e malattia, eterosessualità, liberazione e salute, sia pure con continue oscillazioni intese a sollevare una nebbiolina sufficiente a non dare l’idea di uno schematismo troppo elementare, cui di fatto invece il film si riduce.

Il finale, ad esempio, in cui la troupe cinematografica manifesta la sua presenza, con la sua autoironia non pone riparo alla banalità di quanto è preceduto e rappresenta solo il culmine di un film verbosissimo ma che in realtà alla fine ruota tutto intorno ai seni di Ursula e di Utah.

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