Je bénirai la vie...

14 febbraio 2014

Quando andavo all’università e condividevo l’appartamento col mio amico Giuseppe, ci capitò una sera di vedere in televisione un film americano dal titolo Monsignore, cui assegnammo subito la palma della pellicola più trash di cui avessimo ricordo; protagonista era la buonanima di Christopher Reeve (quello di Superman), il quale impersonava un prelato americano ambizioso e avido, che in un corrottissimo Vaticano diventava ricco e potente grazie al contrabbando di sigarette (sì, di sigarette: mancava solo che facesse il contrabbando di cioccolata con la Svizzera): e intorno a Roma c’erano villaggi dall’aspetto assai poco laziale, dove si aggiravano picciotti con la coppola e lo schioppo, insolito connubio tra la mafia e i banditi del brigante Gasparone che scorrazzavano per la Campagna Romana d’antan. Be’, questa pellicola demente era tratta da un romanzo francese, che mi auguro sia meno demente del film; e se la cito qui è perché, stando alla Wikipedia francese, l’autore di tale romanzo, di nome Jack-Alain Léger, altri non è che Paul Smaïl; o meglio, entrambi sono due dei molteplici pseudonimi sotto cui scrisse canzoni, romanzi e libelli un artista d’oltralpe anarcoide e bizzarro, morto suicida nel 2013, il cui nome vero era Daniel Théron.
In effetti, quando in Francia uscirono i libri del misterioso Paul Smaïl, ci si stillava il cervello per capire chi fosse questo giovane scrittore beur che nessuno conosceva; e fece poi un certo scalpore sapere non solo che il giovane beur, lungi dall’essere tale, era un francese purosangue di mezza età, ma che era anche capace di far uscire, a breve distanza dai libri di Paul Smaïl, un pamphlet antimusulmano: con notevole caduta di stile, perché fare gli antimusulmani come lui nel 2004 era una delle mode più diffuse e, almeno per alcuni, delle più redditizie.
Forse che Paul Smaïl non fosse uno scrittore tanto giovane il suo Ali il magnifico un po’ lo lascia trasparire: a parte il non poter avere diciott’anni come il suo protagonista e narratore in prima persona, chi ha composto queste pagine torrenziali e bellissime non può essere neppure poco più che ventenne, bensì un uomo che sulla letteratura e sulla vita ha potuto riflettere a lungo, magari in modo contraddittorio e caotico, ma in profondità; ché in questo libro c’è di tutto: la poesia, la letteratura, la filosofia, la storia della Francia e dell’Europa più recente, il mescolarsi e il cozzare delle culture, tutto raccontato a una velocità indiavolata, con un’eloquenza fluviale in cui si fondono il gergo dei ragazzacci beur della banlieue e le citazioni a pioggia di Rimbaud, di Corneille, delle pubblicità televisive, di Casablanca e dell’Uomo Vogue. L’autore, per bocca del giovanissimo Sid Ali, bellissimo ragazzo di famiglia algerina proletaria, sempre vestito di bianco, assassino e lettore onnivoro e vorace, ha intessuto un gigantesco commento alla Società dello spettacolo di Guy Debord: l’adolescenza vertiginosa di Sid Ali, ragazzo ipersensibile e troppo intelligente, non è che una lotta strana e disordinata contro il sistema dello spettacolo totale, che egli riesce ad assimilare senza farsene servo e complice. Anche gli omicidî delle tre donne (anzi, quattro), repentini e casuali, rientrano in modo paradossale in questa logica.
Eppure non si tratta d’un romanzo a tesi. Non c’è nemmeno una riga di questo libro che suoni didascalica. Al contrario: vi splende una volontà corrusca, incoercibile di raccontare, di piangere, di ridere: Paul Smaïl ricorda molto Céline (senza puntini di sospensione) e Sid Ali è una specie di Bardamu beur, dandy e insolente, che tratta a sberleffi e pernacchie una Francia incarognita, quella Francia della piccola borghesia taccagna, diffidente e meschina sempre in attesa d’un nemico verso cui sfogare le sue insicurezze, le sue miserie e la sua bile: ieri gli ebrei, oggi gli arabi.
Inutile dire che Sid Ali è un grande: mi sono innamorato follemente di lui. A volte le creature di carta e d’inchiostro sono più belle e più vive di tanti uomini in carne ed ossa; e lo stile di queste pagine è tanto travolgente, che non riuscirei a parlarne in modo analitico. L’originale francese dev’essere ancora più rutilante, perché dalla versione italiana, d’accordo con l’autore, la Feltrinelli ha eliminato molte citazioni. Purtroppo però la Feltrinelli ha anche fatto scrivere la quarta di copertina da un collaboratore di mente qualificabile con eufemismo poco acuta, capace di definire il protagonista “odioso e affascinante” (affascinante sì, ma odioso perché?) e ha messo in copertina il disegno d’un ragazzetto maghrebino che col narratore di questo libro non ha niente da spartire: leggerlo prima di curarne la grafica era troppo sforzo?
P.S.: non sono un fascinoso e pericoloso diciottenne come il Nostro, ma ho in comune con lui alcune cose: mi piacciono i maschi, sono mancino, scrivo a con una stilografica Montblanc, amo gli scompartimenti dei treni di tipo vecchio, chiusi, con le tendine e i finestrini abbassabili; a differenza di lui e dal Lafcadio di Gide, però, dal finestrino d'un treno in corsa io non ho mai gettato nessuno.
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