Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus

13 marzo 2014

Noto che di preferenza Peter Cameron ambienta i suoi romanzi fuori dalla città, in località di vacanza spesso isolate, dove la vita si svolge secondo leggi e ritmi estranei da quelli usuali; qui poi interviene un altro elemento straniante: l'intera vicenda si svolge in meno d'un giorno, fra un ristretto numero di figure, pressoché tutta in una grande casa di campagna a qualche ora da New York, quasi a mo' di omaggio all'antico dogma drammaturgico dell'unità di tempo e di luogo, anche perché il romanzo possiede un deciso aroma di Kammerspiel. L'unità di luogo, in realtà, non è rispettata in maniera pedissequa, mentre le rotture rispetto a quella di tempo sono introdotte solo con la tecnica del flashback: anzi, l'opera sembra pronta per essere trasformata in sceneggiatura.
Nonostante il notevole realismo nei dialoghi, Cameron rimane un po' un estraneo se confrontato con le tendenze odierne più tipiche della narrativa americana; piuttosto, a me dà spesso, e non soltanto qui, l'idea d'un autore americano che cerchi di scrivere come un francese: ci s'imbatte costantemente, leggendo le sue pagine, in un'aura di vertigine, di non detto, di sottaciuto, fra i quali si scivola e si passeggia senza intoppi, ma con un senso insopprimibile di spaesamento e disagio; d'altronde, anche parecchi suoi personaggi vivono fra color che son sospesi: si tratta spesso di emigrés, di gente che vive sul confine tra esperienze, culture e scelte sentimentali.
Benché ovattati e smussati nella resa narrativa, i contrasti vengono però a galla poco a poco, incarnati a volte in gesti minimi, a volte in parole o silenzi sbagliati. Sulle prime, si potrebbe ritenere che, dopotutto, Cameron si limiti così a denunciare una certa ipocrisia di tante presunte famiglie felici: il taciturno John e la loquace moglie Marian, ricchissimi rentiers in apparenza contenti nel loro villereccio romitaggio, per gradi assumono il volto di due terribili egoisti divorati dalle proprie manie; il giovane Robert dà prova d'una rigidità suicida; il ben più vecchio e navigato Lyle dimostra di non aver ancora acquisito un minimo di sapienza diplomatica che riesca a salvare una storia d'amore col giovane Robert appena nata.
Però, a ben guardare, ad uscirne ammaccata non è tanto, al limite, la famiglia americana, quanto l'etica americana, quella bacchettoneria della sincerità ad ogni costo, la quale rifugge dalla flessibilità e dalle maschere, giungendo però ad affogare così anche le relazioni sociali, che in parte si nutrono altresì di sfumature, di travestimenti, di accortezze; l'urbanità non consiste soltanto nelle buone maniere, ma anche nel saper ornare, celare, troncare e sopire. L'autore addita così la fragilità estrema delle relazioni umane in quanto tali, a cominciare proprio da quelle più nobili e calde, l'amicizia e l'amore, e la loro sostanziale natura ambigua, che si regge infatti, almeno in parte, sull'abilità nel tacere e nel mentire.
Certamente chi conosca già l’opera del Nostro ne trarrà un notevole sentore di déja vu: alcuni temi, come appunto l’ambientazione in campagna o la passione dell’intellettuale un po’ attempato per il giovane artista, sono anzi ricorrenti; ma la scrittura placida e sottile di Cameron sa rendere gradevoli anche le ripetizioni e accattivanti perfino i dialoghi un po’ vacui e le situazioni sul filo del nulla. Forse Cameron non è uno scrittore grande; non è uno scrittore che entusiasma ed emoziona alla prima lettura; ma nemmeno è uno scrittore banale, e nemmeno uno scrittore che annoia.
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