L'heure exquise

17 maggio 2014

Dell'esistenza di John Glassco venni a sapere parecchi anni or sono, quando Adelphi fece uscire in traduzione italiana il volume di Robert McAlmon Vite da geni, ove lo scrittore americano (scrittore, peraltro, acidulo e petulante, per nulla simpatico) rievocava la Parigi mitica degli Anni Venti; nel testo, se la memoria non mi tradisce, il nome di Glassco non ricorre mai, ma lo s'incontrava nelle didascalie di alcune foto scattate al mare: un ragazzo esile, non particolarmente bello ma con la freschezza che donano sempre i diciott'anni; immagini che, come apprendo da queste pagine, risalgono a un viaggio a Nizza di Glassco con l'amico Graeme Taylor e appunto McAlmon, il quale per un certo periodo funse da mentore per i due giovanissimi canadesi.
Glassco e Taylor (figura di aspirante scrittore del quale praticamente non si sa nulla, a parte ciò che se ne racconta qui), al pari di miriadi di nordamericani, arrivarono nella capitale francese un po' per inseguire i loro sogni di carriera letteraria in quello che, a tutti gli effetti, allora della cultura mondiale costituiva il faro, e un po' per sfuggire dall'ambiente sociale asfittico e soffocante delle terre e delle famiglie d'origine: il padre di Glassco, tipico uomo d’affari del tempo, per esempio, gli mandava lettere in cui periodicamente lamentava la scarsa virilità del mestiere di scrittore e gl'ingiungeva di tornare a Montréal a riprendere gli studî universitarî presso i suoi onorevoli (e presumibilmente noiosissimi e provincialissimi) amici che vi tenevano cattedra; siccome poi suo figlio faceva orecchie da mercante, a un certo punto papà Glassco tagliò il mensile che in un primo tempo gli aveva garantito tanto per toglierselo di torno.
Va tenuto presente che la Francia proibiva a questi turisti culturali di esercitarvi un mestiere fino che restavano sul territorio nazionale, per impedire ondate d'immigrazione incontrollata di lavoratori con la scusa del viaggio di piacere: chi non era ricco di suo e non riceveva soldi da casa doveva perciò arrabattarsi con mansioni malpagate, oscure o a volte illegali, a meno che non fosse tanto fortunato e attraente da fare il mantenuto; il Nostro finì così a posare per foto pornografiche, e fece pure il gigolo, come dice a un certo punto: nel senso, beninteso, tipico di allora, d'intrattenitore per le signore nei locali notturni; ché se poi con le signore Glassco faceva anche altro, a noi non lo viene a raccontare; e del resto più tardi, come riferisce, finì davvero per prostituirsi in una casa d’appuntamenti per donne d’una certa età.
Sulla sessualità del personaggio, d'altro canto, abbiamo buone ragioni di pensare ad una sua forte reticenza. Egli dà conto, in effetti, di diverse storie con donne di vario tipo, sebbene lo faccia col tono piuttosto alato che era di rigore intorno al 1930, quando scrisse queste pagine. Ma sappiamo che serbò eterno rancore all'irlandese Morley Callaghan, romanziere amico di Hemingway (pure conosciuto, ma di sfuggita, da Glassco) perché in un'opera ricordò lui e l'inseparabile amico Graeme Taylor come ragazzini sciocchi e ridanciani dall'ambigua sessualità; è possibile che i due avesero un rapporto omosessuale (ad ogni modo, restarono amici fino alla morte di Taylor, avvenuta quando aveva soli cinquant'anni) e che anche con McAlmon, che era gay, il sodalizio non si limitasse alla semplice amicizia. Comunque sia, la sincerità di quest’autobiografia giovanile va presa con le pinze: in certi passaggi è più che probabile che le vicende fossero parecchio romanzate, mentre in altri si notano errori nel ricordare i luoghi e i tempi: Glassco infatti redasse i primi capitoli a caldo, mentre buona parte dell’opera fu stesa a un paio d’anni di distanza, quand’egli era a Montréal in attesa d’un’operazione chirurgica che gli doveva salvare i polmoni gravemente compromessi dalla tubercolosi contratta verso la fine del soggiorno parigino; l’operazione poi ebbe luogo con successo, ma l’autore non riprese più in mano il lavoro fino al 1967, quando si decise di prepararlo alla pubblicazione lasciandolo com’era e dotandolo solo d’una brevissima postfazione.
Ciò che egli riferisce invece con sincerità sono gl’incontri con letterati e artisti. L’unico con cui era legato davvero in modo durevole fu proprio Robert McAlmon: questi, dalle pagine autobiografiche che ci ha lasciato, appare come un tizio d’intelligenza mediocre, caustico e brillante ma sostanzialmente superficiale nei giudizî, e l’impressione esce confermata anche da ciò che ne racconta Glassco. Tutti gli altri restarono conoscenze momentanee ed occasionali: da Joyce fu condotto una sera proprio da McAlmon, il quale con lo scrittore irlandese intratteneva buoni rapporti, e, approfittando dell’assenza di Nora, passarono il tempo a ubriacarsi fra chiacchiere divaganti; a casa di Gertrude Stein s’imbucò una sera non invitato e, se è vero ciò che narra, finì per offenderla e fu messo alla porta; a Breton fu presentato e chiacchierò assieme in un locale, ma la cosa terminò lì; con Peggy Guggenheim e l’allora suo marito Laurence Vail trascorse una serata a Nizza; con Harry Crosby conversò (e, se gli dobbiamo credere, fiutò etere: forse per tale motivo nascose Crosby sotto uno pseudonimo, pur trattando l'infelice miliardario editore con molto più garbo di quanto non faccia il suo amico McAlmon nelle proprie memorie) a una festa dove vide anche Picabia, Foujita, Cummings, Nancy Cunard e Cyril Vernon Connolly: ma che a costoro fosse presentato non lo dice; e così via.
D’altronde, Glassco non era che uno dei tanti giovani americani o canadesi di belle speranze, oziosi e gran bevitori, che passavano i mesi fra boîtes e sistemazioni di fortuna in albergucci o appartamenti prestati e subaffittati: gli espatriati celebri o autentici ed affermati artisti conoscevano centinaia di persone come lui, le trattavano con cortesia e per lo più le dimenticavano subito; né egli e il suo amico Graeme Taylor trovarono maniera di entrare in confidenza con artisti francesi o con quegli stranieri, come Man Ray, Picasso, Dalì o Buñuel, che del mondo culturale parigino facevano parte sul serio. Eppure il semplice fatto di vivere ai margini del suo sogno sarebbe restato per Glassco un ricordo indelebile e felice: mai lo sentiamo rinnegare questi anni stravaganti, oziosi e dissipati; anzi, nonostante i periodi difficili, essi gli appaiono costantemente come il periodo più ricco e più bello della sua giovinezza. L’interesse documentario dell’opera quindi è notevole, perché offre un ritratto a tutto tondo della Montparnasse verso la fine dei roaring Twenties come la poteva vedere un espatriato anonimo e minore, uno di quelle innumerevoli schiere di piccoli sognatori e intellettuali che arrivavano soltanto a lambire l’ambiente dei grandi creatori, e che tuttavia di quell’atmosfera ribollente e irripetibile, sia pure come sfondo e comparse, costituivano un elemento integrante.
Il libro però è anche godibile dal punto di vista della scrittura, perché Glassco è sempre simpatico, sciolto e vivace: non è un grande scrittore, ma si legge volentieri. Più tardi si sarebbe perfino dedicato alla politica (fu anche sindaco d’un paese in Canada), tradusse libri dal francese (era perfettamente bilingue) e compose altre opere, fra cui alcune di carattere erotico, anche se, in rapporto alla vita piuttosto lunga, scrisse poco. Non so di che qualità fosse la produzione tarda: queste pagine giovanili, ad ogni modo, suonano ancora piene di freschezza ed è giusto ripubblicarle.
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