recensione diGiulio Verdi
Oh, sister, am I not a brother to you?
Dopo l’exploit di Netflix nelle due passate stagioni televisive, finalmente anche Amazon.com sembra aver ingranato la giusta marcia: la figura chiave è quella di Jill Soloway, già nota al pubblico gay in qualità di sceneggiatrice e produttrice esecutiva per Six Feet Under e United States of Tara. Di Transparent è anche l’ideatrice, e il soggetto è molto autobiografico: il padre di Soloway è una donna transessuale.
La genitrice trans nella serie si chiama Maura Pfefferman (Jeffrey Tambor), e la narrazione parte nel giorno in cui decide di fare coming out coi propri figli. La maggiore, Sarah (Amy Landecker), è in rotta di collisione col marito e casualmente s’imbatte in una vecchia fidanzata dei tempi del college (Melora Hardin, davvero perfetta nel ruolo della butch prevaricante e con un look da Ellen DeGeneres). Il figlio maschio, Josh (Jay Duplass), è un love – non “sex” – addict bloccato in un’adolescenza sentimentale prolungata. La cocca di mamma, Ali (Gaby Hoffmann, figlia d’arte della Viva warholiana), è ingenua e un po’ abbandonata a se stessa. A completare il quadro c’è l’immancabile Judith Light, presenza fissa ovunque ci sia qualcosa di gay, nel ruolo della madre biologica.
Nelle intenzioni di Soloway la serie sarebbe «genderqueer» e avrebbe lo scopo di «inventare figure intermedie che sfumino il binarismo, come Principessa Macho, Boygirl, Girlboy»: soprattutto nel personaggio di Ali si intravede il rischio dell’aggiunta di tutto quel notoriamente estenuante corredo di lettere all’acronimo LGBT. In realtà i personaggi sono (fortunatamente) molto specifici, coraggiosi e all’antica quanto alla definizione di sé. Insomma, nell’insieme la sceneggiatura è molto più transparent e tradizionalmente militante di quanto la creatrice proclami. Per fare un esempio: Soloway si propone di combattere il luogo comune secondo cui non solo l’orientamento sessuale ma anche l’identità di genere possa essere una scelta. Subito dopo il coming out del padre, la figlia maggiore lo interroga: «quindi d’ora in poi ti travestirai sempre da donna?». Maura risponde: «no, tesoro: è tutta la vita che mi sto travestendo da uomo. Io sono una donna».
Encomiabile il lavoro di ricerca di Soloway che, nonostante già ne sapesse più della media, ha coinvolto svariate persone omo- o transessuali nel processo di creazione dell’episodio pilota. Con l’aiuto dei consiglieri, ha persino compilato una lista di termini o perifrasi da evitare nella stesura del copione: curiosamente nell’elenco c’è anche «homosexual», ritenuto troppo asettico, tanto da essere ormai diventato appannaggio dei bigotti o degli autoproclamati tolleranti che vogliono riferirsi al problema dei froci mantenendo un apparente aplomb. Gli viene preferito un amichevole «faggot», di cui invece la comunità gay sembra essersi appropriata più che definitivamente.
L’episodio più riuscito della prima stagione è l’ottavo: si tratta di un lungo flashback sul coming out di Maura (allora, nel 1994, si faceva chiamare Mort ed era un professore universitario) alla moglie, nonché sulla partecipazione di Maura a un evento travestitista – e transfobo – in un campeggio. C’è spazio anche per una sequenza un po’ felliniana, un montaggio parallelo sulla rievocazione del desiderio (forse consumato o forse no) da parte di Maura e di Ali. In nessuna delle dieci puntate, comunque, c’è un momento morto: tutto fila liscio e risulta autentico, complice anche il fatto che la maggior parte dei ruoli trans sono interpretati da attrici o attori realmente trans… Soloway si è persino scusata per aver offerto il ruolo di Maura a Jeffrey Tambor, che tuttavia lo interpreta cum grano salis.