The Imitation Game

6 gennaio 2015

Possiamo parlare di vero biopic quando un aspetto fondamentale della vita del personaggio raffigurato è trattato per sommi capi? È la domanda che sorge spontanea dalla visione di The Imitation Game, racconto dell’esistenza e delle imprese del matematico e padre del computer Alan Turing, interpretato da un bravo e sempre più in ascesa Benedict Cumberbatch. Tratto dalla biografia Alan Turing. The Enigma pubblicata da Andrew Hodges, questo soggetto era stato già rappresentato nel 1996 all’interno di una serie della BBC, che si discosta dalla pellicola di Morten Tyldum per una principale differenza: se lì si preferiva porre sotto l’occhio della macchina da presa la drammatica esperienza personale di Turing, qui si predilige l’invenzione della sua macchina atta a decriptare Enigma, strumento infernale sfruttato dai nazisti per le loro comunicazioni, aiutando gli inglesi a vincere la Seconda Guerra Mondiale.

L’opera attuale prende il via dall’arresto del protagonista nel 1952, a seguito dell’accusa di atti osceni – l’essere omosessuale era un crimine nell’Inghilterra dell’epoca – e, attraverso un interrogatorio con un agente di polizia, l’arrestato ripercorre, con una serie di flashback incastonati l’uno nell’altro, tutta la sua ricerca scientifica. È concesso qualche lievissimo accenno al rapporto di amicizia nei confronti del compagno di college Christopher, morto di tubercolosi bovina prima che Turing potesse confidargli il suo amore, talmente forte da spingerlo a dare il nome del giovane alla sua più celebre scoperta. Questo e poco altro ci viene detto della sua omosessualità, almeno per gran parte della pellicola: di fronte alle confessioni dolorose del protagonista, prima un collega e poi l’adorata Joan Clarke – una sempre meno convincente Knightley –, che addirittura il fisico chiede in moglie pur di non perderla dal suo team, rispondono di averlo sempre sospettato, ma allo spettatore viene da chiedersi sulla base di quale atteggiamento o episodio, dato che non è possibile evincerne l’omosessualità da nessuna scena. Si tratta di una scelta più o meno condivisibile: parlare di un genio vuol dire mostrarne la genialità, e The Imitation Game fa questo e lo fa molto bene. Una sottile ironia percorre tutta la prima parte dell’opera, dal caratteraccio di Turing alla sua maniacalità, dal riuscito contrasto nato della leggerezza del suo giro in bicicletta tra le fumanti macerie del bombardamento fino alla meravigliosa storiella dell’orso raccontata ai colleghi che lo detestano. Poi il film si avventura maggiormente nel dramma e nella scienza, riuscendo, comunque, a emozionare ed evitando toni troppo patetici o tecnici.

Forse ci si è concentrati troppo sul rapporto con Joan, che indulge in tonalità pericolosamente romantiche prima di essere ricondotto sulla giusta via, forse la fondamentale questione dell’omosessualità repressa e la condanna alla castrazione chimica (che spinsero poi il matematico al suicidio nel 1954) sono troppo poco accennate, forse leggere della sua drammatica morte solo attraverso delle didascalie finali (nelle quali si accenna anche alla tardiva e vergognosa “riabilitazione” da parte della regina Elisabetta nel 2013) è fin troppo sbrigativo, ma, appunto, The Imitation Game predilige l’altro aspetto di Alan Turing, quello del genio che ha aiutato il mondo ad essere quello che è ora.

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