recensione diMauro Giori
I toni dell'amore
Come già Cloudburst, I toni dell’amore racconta la storia di un’anziana coppia gay alle prese con la novità del matrimonio. E per coppia anziana intendo sia una coppia di gay anziani che una coppia di decennale tenuta.
Non vi è nient'altro che questo. Per quanto Sachs e Zacharias provino a mettere sul fuoco qualcosa di più con le storie di parenti e amici che si trovano ad ospitare i due protagonisti, tali vicende rimangono abbozzate troppo superficialmente perché possano risultare di qualche interesse. Le crisi del nipotino moderatamente scapestrato o le contenute isterie della scrittrice, ad esempio, non riescono a smuovere le acque limacciose di un racconto che vive solo del sentimento che lega George e Ben, momentaneamente separati dalla povertà conseguente al licenziamento del più giovane dei due (da una scuola cattolica) dopo il loro matrimonio, finalmente possibile.
Proprio per questo motivo, nonostante l’intreccio sia messo in moto da questioni decisamente pragmatiche, non disturba che sia risolto da un semplice deus ex machina (nella persona del piacente proprietario di un appartamento a canone bloccato che casualmente deve lasciare la città). Perché il film non consiste nemmeno nella vicenda della ricerca di un nuovo appartamento, o nella più o meno molesta permanenza forzata di George e (soprattutto) di Ben in case altrui, bensì negli sguardi innamorati di Molina e Lithgow, nelle loro tenerezze, negli atti semplici e basilari dell’amore quotidiano frustrato dalla separazione e dalla lontananza, nel continuo cercarsi, nei gesti sincronizzati dalla lunga convivenza, nelle parole sussurrate con complicità. Come quando Ben chiede a George di scendere dal letto a castello per stargli vicino: «I have missed having your body next to mine too much to have it denied to me for reasons of bad engineering».
Il finale zuccheroso con i due adolescenti in un controluce disneyano sciupa un’ellissi dolente viceversa giocata con estrema sobrietà, la cifra più indovinata del film, che funziona nella misura in cui non cerca di essere più sofisticato della semplice quotidianità che vuole descrivere.