recensione di Marco Valchera
Pornocrazia
Quale è lo scopo di un film come Pornocrazia, diretto da Catherine Breillat e tratto da un suo romanzo? È l’interrogativo che mi ha tormentato per i suoi 77 minuti, ma non solo quello. Nasce come una pellicola che vuole creare scandalo? Perché, per quel che concerne l’omosessualità, al di là della fellatio in primo piano come incipit e Rocco Siffredi che bacia un asiatico, questo si esaurisce già alla seconda scena. È un confronto di genere tra una donna stanca degli uomini e un omosessuale? Non si direbbe, perché il celebre pornodivo dice di essere gay ma poi fa tutt’altro. È un manifesto femminista? Potrebbe esserlo, con la supremazia della carnalità femminile che riesce a irretire l’uomo, ma la scelta del patetico finale rivela una sconfitta in extremis della protagonista. Allora di cosa si tratta? Di certo Pornocrazia è un film girato male, recitato anche peggio – di Siffredi sappiamo bene quale sia la dote principale, della Casar neppure quella – e la voce over che ci racconta i pensieri dell’uno e dell’altro personaggio, declamandoli come se fossimo di fronte ad una tragedia greca, è un espediente alquanto ridicolo. Forse la Breillat ha seriamente pensato di essere un nuovo Euripide: anche la divisione in atti, che corrisponde alle quattro notti dell’incontro tra i due, sembrerebbe tradire questa inclinazione.
Tutto si sviluppa a partire da un maldestro tentativo di suicidio di lei in un locale gay. Dopo essere stata salvata dall’uomo e averlo ringraziato con un pompino (il lato comico è che Siffredi venga dopo un minuto), la donna chiede al nuovo “amico”, dietro lauto pagamento, di guardarla nuda senza farsi toccare, mettendosi in posa come l’Olympia di Manet, per cercare poi di comprendere il perché del disprezzo dell’altro nei confronti del gentil sesso. Se le premesse potevano essere interessanti, il risultato è raccapricciante: sia per alcune immagini da voltastomaco – come ad esempio un tampax usato messo in un bicchiere d’acqua, bevuto da entrambi come se fosse tè, un forcone infilato e retto dalla vagina, o il membro sporco di sangue mestruale (tra l’altro di un rosso fuoco, neanche fosse uno scadente ketchup) – sia per alcune riflessioni filosofico-sessuali memorabili, che, se recitate con minore serietà, avrebbero potuto almeno rendere l’opera ironica. Tra queste come non citarne un paio, in bocca al pornodivo: il confronto tra il pelo pubico femminile, “perniciosa frivolezza”, e il piacere del sesso anale, perché “la resistenza elastica dell’ano dei ragazzi non può mentire sulla forza della loro ganga”, oppure il confronto tra i residui femminili e quelli maschili che possano rimanere sul membro dopo un rapporto, dove quelli anali assumono considerazioni metafisiche, “la materia fecale è inerte, è il termine del ciclo della vita”.
Fortunatamente lei si decide a pagarlo già alla quarta notte, ponendo fine a questa investigazione sul sesso e sulla natura di genere, ma, soprattutto, a questo scempio cinematografico.