Disgusto e umanità

15 marzo 2015

Siccome le prefazioni vengono prima dei testi che introducono (mi si perdoni la tautologia), prima di parlare del saggio di Martha Nussbaum dedicherò qualche riga allo scritto proemiale di Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo, che peraltro, secondo mio costume, ho letto per ultimo. Non ho ben chiaro per quale ragione l’editore abbia affidato la stesura di questo preambolo a due studiosi che non si occupano di diritto, laddove Disgusto e umanità verte su questioni di diritto costituzionale: ai ragionamenti giuridici riportati dalla Nussbaum o da lei stessa formulati non sembrano infatti volgere grande interesse, anche se in compenso danno dei suoi capisaldi argomentativi una lettura spesso molto stimolante, soprattutto alla luce delle scienze psicologiche; il che mi fa sospettare che la parte più originale della prefazione sia farina del sacco di Lingiardi, essendo psicologo lui e non la Vassallo. Certo, vi sono anche osservazioni che lasciano un po’ il tempo che trovano, come quando si vanno a fare le pulci alla povera Nussbaum perché cita di continuo John Stuart Mill e invece mai Foucault: a parte che uno studioso allega le fonti che fanno al caso suo e non quelle che garbano ai suoi lettori e commentatori, la scelta non mi pare affatto peregrina, dato che l’autrice si rifà ad un antesignano filosofico, Mill appunto, di cui è impregnata la cultura giuridica liberale anglosassone, mentre di Foucault, più o meno ben compreso e digerito, si occuperanno magari molto i dipartimenti di filosofia e sociologia negli atenei d’oltreoceano, ma poco o punto le locali corti di giustizia. Involontariamente comico poi appare il frisson “laico” dei due prefatori circa il parallelo che traccia la studiosa americana fra l’adesione a un credo religioso e l’orientamento sessuale: absit!, come se non sapessero distinguere analogia e identità; ma quando si parla di religione i sedicenti laici italiani, che in realtà sono di solito preti o inquisitori sub alia specie, perdono sempre la testa. Intanto, però, serbano l’accento del frate predicatore: difatti, mentre la Nussbaum, da buona laica e razionalista americana, usa toni sereni, all’occorrenza critici, ma anche ottimistici, l’introduzione, soprattutto all’esordio, veste volentieri l’eloquenza tragica del quaresimale. Chacun à son goût.
Seguire il filo del saggio, non lunghissimo ma piuttosto complesso anche se redatto con ragguardevole limpidezza di stile, porterebbe via troppo tempo: ritengo però che se ne possano estrarre alcune idee principali le quali vi fungono da fili conduttori. Anzitutto va precisato che lo scritto non ha pretese di assolutezza universale, ma sia nel descrivere certe casistiche dell’omofobia sia nell’additarne le vie di superamento e confutazione si basa sulla realtà degli Stati Uniti: la Nussbaum stessa per esempio ricorda che il disgusto, il quale tanta parte possiede nel dare sostanza e fondamento all’omofobia degli americani, ha invece un parte minore nell’omofobia degli europei. Si tratta peraltro d’una nozione rilevante in ogni caso, perché divieti, proibizioni e timori legati sia all’omosessualità, sia, in modo più ampio, alle forme di sessualità non reputate “normali”, lungi dal mirare a proteggere, com’è giuridicamente ed eticamente doveroso, i soggetti deboli o non consenzienti, si limitano spesso a difendere la comunità da un disagio puramente immaginato. Ecco qui che interviene appunto una distinzione già teorizzata da Stuart Mill: non reca alcun danno alla società, e quindi non può diventare penalmente rilevante, un comportamento “osceno” che avvenga tra soggetti consenzienti in luoghi ove nessun altro possa involontariamente assistervi. Tale principio da solo impedirebbe gran parte di quelle confusionarie legislazioni sessuofobiche di cui l’autrice riporta uno sconfortante campionario.
Nel titolo il disgusto si affianca all’umanità: umanità che in una società democratica e matura ciascun cittadino dovrebbe riconoscere nell’altro. E qui l’autrice pone in rilievo come in realtà questo riconoscimento dell’altro divenga integralmente fruttuoso solo quand’è reciproco: spesso nelle polemiche e nelle discussioni volte a dimostrare l’inconsistenza delle istanze omofobiche si perde di vista, non diversamente da quanto fanno gli omofobi allorché parlano (anzi, sparlano) di noi gay, la dignità della nostra controparte; non si tratta di postulare in modo irenistico che “magari anche il mio avversario un po’ di ragione ce l’ha” (potrebbe non averne davvero neanche un po’), bensì di mettersi almeno un attimo nei suoi panni, cercando di capire che i suoi timori o le sue speranze sono reali, e semmai partendo proprio da qui per dimostrarne l’infondatezza.
Per un giurista inoltre il libro ha un oggettivo interesse grazie al fatto che percorre il cammino, tuttora in corso, che ha portato negli Stati Uniti dapprima a riconoscere la liceità dei rapporti omosessuali, poi, in alcuni stati, anche a riconoscere diritti specifici alle coppie gay, tra cui il matrimonio, e a valutare come incostituzionali alcune norme legislative (in ispecie quella famosa introdotta in Colorado) create per cercare di arginare un futuro riconoscimento dei diritti stessi. Noto, per inciso, che negli U.S.A. suona pacifico che sia in primo luogo un giudice a creare un nuovo diritto, quando se ne sente la mancanza nell’ordinamento ma il legislatore non vuole o non può introdurlo di sua iniziativa; nessuno, colà, strilla che “la magistratura si arroga il potere legislativo” come fanno da noi tutti i cretini in libera uscita che berciano sui giornali; si obietterà ciò dipendere dalla diversa conformazione delle fonti del diritto in common law, dove in effetti i precedenti giudiziarî hanno valore normativo e vincolante: ma l’obiezione vale poco, se si pensa che anche nei sistemi di civil law l’interpretazione giurisprudenziale, pur essendo sempre subordinata alla legge, è quella che di fatto consente l’applicazione della norma, la adatta di caso in caso alle mutevoli condizioni della realtà di fatto, e a volte, proprio per dare un senso alla legge e per armonizzarla col resto dell’ordinamento e coi principî costituzionali, deve anche darne un’esegesi rivoluzionaria. Se poi i giudici, per paura dei politicanti o dell’opinione pubblica (“il popolo esclamaua”, disse anche il Senato di Milano: voleva qualche untore sul patibolo, e conveniva darglielo, senza troppo badare con sottigliezza alla procedura penale) si tirano indietro all’ultimo momento, è un problema che riguarda la loro coscienza di uomini e di giuristi: ma che il giudice debba essere mera bouche de la loi rimarrà sempre una metafora brutta e sbagliata; una pia illusione nel migliore dei casi, capace di far dire scemenze a tanti, da Giustiniano agl’illuministi: nel peggiore, una massima buona per coprire l’ignavia dei cattivi giudici e la protervia dei legislatori mascalzoni.
Altro elemento che emerge da queste pagine: l’estrema cura che, proprio in virtù dello stare decisis vincolante nei sistemi di common law, ogni giudice assegna al vaglio delle radici storiche di ciascun istituto. Oltretutto, a un osservatore superficiale potrebbe sembrare paradossale un simile valore accordato alla storia in una cultura come quella americana, che si ritiene, perlomeno a volte anche a ragione, priva di profondità storica; di fatto gli U.S.A. sono, viceversa, uno dei paesi più antichi del mondo, se si prende come parametro di misura la continuità delle istituzioni: a parte Santa Sede, Inghilterra, Svizzera e qualche piccolissimo stato come San Marino, altri non me ne vengono in mente; quando gli Stati Uniti erano già retti dal medesimo regime che li governa oggi, in gran parte d’Europa c’era ancora l’Ancient régime. Ecco perché i riferimenti ai Padri costituzionali sono tanto frequenti (e affascinanti all’orecchio europeo) nella riflessione giuridica americana, e addirittura nella prassi politica, mentre da noi le cesure istituzionali, sociali e giuridiche sono state tali da creare uno iato enorme fra il mondo di allora e il nostro. Eppure ritengo che l’esempio americano valga in qualche misura altresì per noi: una lettura storica, una lettura in profondità del diritto, sia pur condotta in altre fogge, rimane anche in Italia non solo esperibile, ma perfino augurabile, anche ad evitare quella visione puramente ragionieristica e tecnicistica del diritto, la quale di fatto è il miglior modo per ucciderlo.
Segnalo tre piccoli inconvenienti nella traduzione: a p.113 nuisance è tradotto turbativa anche quando il contesto della frase richiederebbe l’impiego del vocabolo immissioni (giusta l’art. 844 c.c.), necessario nell’esempio citato dalla Nussbaum; a p.121 si parla di “reato civile, non penale”: conveniva tradurre “illecito”; ma l’errore più strano capita a p.127, dove, nell’ultimo capoverso, si legge la proposizione oggettiva senza predicato “ha sostenuto che il diritto dell’individuo all’uso di materiale osceno a casa propria”: frase zoppa già nell’originale o con un “che” di troppo nella versione italiana?
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