Diverso da chi?

24 luglio 2015

Diverso da chi? è un film rappresentativo della situazione e dell’arretratezza culturale del nostro paese (nonché di ciò che vi si considera cinema).

Se c’è un piano che funziona nel film, è quello della satira della politica e del compromesso all’italiana. Ovvero, la satira del PD: certo è una satira facile, ma l’estrema incultura dell’odierna classe politica del nostro paese e la palude stagnante del Partito Democratico consentono ampiamente tale facilità, anzi in un certo senso la rendono inevitabile.

Il problema più grosso, viceversa, non consiste tanto nella banalità del film nel suo complesso, o nella sofferenza prodotta dai duetti e terzetti istrionici dei protagonisti. Il problema è che la sceneggiatura è pensata per compiacere i moderni teorici della fluidità queer, i quali gongoleranno nell’assistere alla vicenda di un gay (Piero) che vuol fare politica, deve collaborare con una donna ultraconservatrice (Adele), ci finisce a letto, la mette incinta, e poi forma una famiglia con lei e il proprio compagno. Personalmente, ho sempre trovato fastidiosi i racconti in cui i gay vengono riconvertiti all’eterosessualità, totale o parziale poco importa, per il semplice fatto che si tratta sempre di racconti ideologicamente tendenziosi, sovente in modo esplicito, altrimenti in modo quantomeno implicito. Diverso da chi? non fa eccezione e vi si aggiunge l’ulteriore fastidio dovuto alla manifesta volontà di far satira su un partito che si è fondato proprio sulla rinuncia a un’identità autentica, in favore di matrimoni di compromesso (ideologicamente parlando).

Trascuriamo pure il fatto che la vicenda è troppo risaputa per essere divertente anche solo nel contesto di una commedia senza troppe pretese. La questione sta nel fatto che qualche pretesa questo film dimostra di averla. Piero, infatti, continua a definirsi gay (e a rifiutare persino di dirsi bisessuale) nonostante si sia innamorato di Adele e ci vada continuamente a letto. Non si tratta di raccontare umana confusione, plausibile disorientamento, comprensibile ostinazione: si tratta di dissolvere il concetto stesso di omosessualità, e non nella forma strutturata dalla teoria queer (il rifiuto delle definizioni in quanto entità limitanti imposte dalla società e da essa costruite), già di per sé ideologicamente e culturalmente discutibile. Piuttosto, si tratta di una dissoluzione più subdola da ideologo di destra, in quanto entità inconsistente, incoerente e autoimposta. Che la deriva del “non definirsi”, della fluidità delle identità, del queer per principio (ovvero per moda), porti a queste conclusioni reazionarie potrà sembrare a qualcuno accidentale o magari tendenzioso, ma ad altri (e sono tra costoro) parrà invece tutt’altro che casuale.

Dunque, in Diverso da chi? l’omosessuale è dapprima disegnato per stereotipi: quando Piero si lascia convincere a cercare una mediazione con Adele, per conquistarla cosa fa? La porta a fare shopping. Nell’immaginario italiota, ancora nel 2009 sembra non poter esistere un gay che non sia esperto di cucina e di moda, abbinamenti e accessori femminili per tutte le occasioni.

Il passo successivo consiste nel degradare esplicitamente l’omosessualità stessa, nel corso di un confronto tra i due protagonisti, a stereotipo e quindi a limitazione: è quanto viene rinfacciato a Piero che non sa accettare il suo innamoramento per Adele, rifiuta a priori i suoi sentimenti per lei e continua a dirsi omosessuale.

Certo anche la Binetti della situazione è disegnata in modo grossolano come la solita donna ossessionata dalla famiglia tradizionale perché sessualmente insoddisfatta, che fa la pasta in casa ma appena beve due dita di analcolico si trasforma in una ninfomane discinta. Ma ciò, lungi dal bilanciare gli stereotipi su Piero e il suo compagno Remo, non fa che aggravare il senso ultimo della conclusione.

Ovvero: se l’omosessualità consiste in un buon palato e in una capacità trascendentale di abbinare le cinquanta sfumature di marrone (pardon, di “terra”), e per il resto è solo una costruzione sociale intesa a limitare una sfera sessuale che dovrebbe essere sempre libera di folleggiar di gioia in gioia, allora quali rivendicazioni potrà mai avanzare? Dal momento che non è più chiaro cosa significhi essere gay ed etero, e che i gay sono al più uomini sofferenti perché non possono avere figli (questo è in sostanza Remo), ecco che si può sistemare il tutto con una semplice soluzione pragmatica in forma privata, dimostrando così l’assenza di necessità di un adeguamento culturale e giuridico della società: la politica può continuare come prima, a occuparsi solo di se stessa, senza che sia cambiato nulla, e nessuno sembra crucciarsene. Tantomeno Piero e Remo. Del resto, laddove persino il politico scafato che mette Piero e Adele insieme riconosce che i Dico erano quello che erano, cioè una porcata, è proprio ai Dico che Piero dice di aspirare, chiarendo che ne sarebbe più che contento.

E poi, diciamocela tutta, Piero in politica è uno Scalfarotto, cioè un disastro, capace infine di curarsi solo di se stesso e ignorando tutto il resto (anche proprio nel senso di concedersi di essere ignorante), fino al punto di presentarsi impreparato agli incontri importanti, di accettare compromessi su compromessi nell’illusione di servire una causa che non è più sua, di sfruttare i drammi altrui, di mentire spudoratamente (lasciando che si strumentalizzi la presunta aggressione ai suoi danni, con il solo risultato di ridicolizzare l’omofobia), di permettere alle sue meschine crisi individuali di interferire in misura crescente con il lavoro.

E così, con due risate, si fa passare un’immagine dell’omosessualità che, rispetto alle macchiette degli anni Settanta, ha in più solo la sua mancanza di qualsiasi identità stabile, quindi di senso. Il vizietto non è più una scappatella occasionale, ma un modo di annullarsi e di rinnegarsi, nei fatti pur negandolo a parole. Questi sono i passi avanti del nostro cinema in materia, questi i passi avanti della politica tutta, nazionale e gay.

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