Dee saper le maliziette che innamorano gli amanti

7 settembre 2015

Quest’esordio letterario di Colette a chi abbia letto le sue opere della maturità dà una strana impressione: a tratti vi si riconosce la zampata della scrittrice francese, a tratti sembra di leggere l’opera di qualcun altro. A parte le inevitabili acerbità stilistiche, la percettibile oscillazione nel tono della scrittura va senz’altro attribuita agl’interventi di quello che al tempo era il marito, l’editore, il mentore letterario e l’ingombrante editor dell’autrice. Figura di viscido ed esuberante pubblicatore di narrativa popolare anche in odor di pecoreccio, questo corpulento e libertino Henri Gauthier-Villars, per gli amici Willy, sembrava uscito da un romanzo di Balzac: non si faceva scrupolo nello sfruttare romanzieri a corto di denaro comprandone opere che poi tagliava, rabberciava e completava secondo il suo gusto; né si può dire che, sotto il profilo commerciale, tali gherminelle fossero improvvide: ogni tempo ha i Dan Brown e le Cinquanta Sfumature che vuole e che si merita; ma la spregiudicatezza di costui doveva essere tanto notoria che, quando rifiutò di sottoscrivere un appello a favore di Dreyfus, qualche bello spirito parigino commentò che era la prima volta che Gauthier-Villars rifiutava di firmare una pagina scritta da qualcun altro. A dir il vero, Colette, anche molto tempo dopo il divorzio, sosteneva che gl’interventi di Willy sul suo testo erano episodici, poco estesi e sostanzialmente positivi; purtroppo il manoscritto originale è andato perso: è probabile (e qui sono d’accordo con quanto afferma Carmen Covito nella postfazione) che la manus maritalis venisse a far estendere o sottolineare motivi, come gli amori saffici delle due maestre o di Claudine stessa, che Colette, lasciata a scrivere di testa sua, sicuramente avrebbe lasciato più allusivi e sfumati. Il tenue ma evidente lesbismo che pervade molte situazioni nella vicenda narrata sembra infatti caricarsi spesso d’una sgradevole lubricità tra le righe dove non traspare l’eros femminile, bensì l’ingordigia del guardone che spia dal buco della serratura: non un guardone ruspante tipo Lino Banfi o Alvaro Vitali nei vecchi film con la Fenech, ma un baffuto guardone ottocentesco in tuba e finanziera; il che è ancor peggio. Certi passi sono allungati e sbrodolati, certi motivi sono ripetuti fin oltre la sazietà; eppure spesso e volentieri già spunta la Colette che conosciamo bene: la sua eroina non divenne a caso un personaggio popolarissimo, col suo misto di grazia femminile, maniere da maschiaccio, eleganza, spregiudicatezza culturale e insolenza di linguaggio, tanto da persuadere l’autrice e il suo mentore a renderla protagonista d’un’intera serie di libri, meno riusciti del primo, invero, a parere di chi li ha letti; e soprattutto in molti passi guizza una felicità descrittiva di paesaggi, interni, vestiti e gesti, che palesano un’arte già sicura di sé, donde traluce quella che sarà la grande Colette degli anni a venire.

[La recensione si riferisce alla riedizione Claudine a scuola, Mondadori, Milano 2010]

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