recensione diAndrea Meroni
Parigi o cara
La Delia Nesti di Parigi o cara, caratterizzata con indicibile precisione da Franca Valeri, non è la classica prostituta cinematografica: non ha l'innocenza di una Cabiria felliniana ma non è neppure una malafemmena; come mangiatrice di uomini non ha la minima credibilità, ma forse ne ha ancora meno come baldracca gioviale e materna, porto sicuro per uomini infelici. Il suo perfezionismo spicciolo – attributo ben più tipico delle zitelle filmiche – ci fa sembrare inverosimile l'idea che possa giacere con i suoi clienti senza scandire l'operazione con continui brontolii e puntigliose osservazioni.
Con un'ammorbante facciata di metodicità, taccagneria e attaccamento ai piccoli trofei del Boom, Delia comprime l'ambizione di trovare quel quid che insaporisca la sua vita e che le faccia abbandonare almeno qualcuno dei suoi manierismi da donnetta arida. Ma, mentre trotta tra una commissione e l'altra (o meglio, tra un cambio di tinta e l'altro), Delia matura bruscamente la convinzione di poter finalmente accalappiare quel quid fuggendo a Parigi, città nella quale suo fratello Claudio (Fiorenzo Fiorentini) – un omosessuale “pubblico”, almeno in Francia – si è già trasferito da quindici anni.
Questo secondo lungometraggio diretto da Vittorio Caprioli, è perfettamente in linea con il suo predecessore, Leoni al sole, e il film che lo seguirà, Scusi, facciamo l'amore?: non è tanto un racconto quanto un'esposizione di situazioni nelle quali non trova posto un vero e proprio climax che dia ai personaggi la possibilità di guadagnarsi una statura da eroi, per quanto modesti.
Delia a Parigi non solo non riuscirà a introdursi nella dorata mondanità della mitica città: non riuscirà neppure a raggiungerne il centro, rimanendo bloccata in un quartiere periferico di cui non apprezza il fuligginoso potenziale pittoresco, così come detestava i quartieri popolari della sua Roma (preferendogli gli ordinatissimi casermoni nuovi di pacca). La sua sconfitta – insignificante ed eclatante al tempo stesso – è confermata dal suo ritorno nella Città Eterna, in qualità di moglie di un ciarliero pizzaiolo interpretato dallo stesso Caprioli.
Ogni nota di colore, ogni sprazzo di magnificenza le è precluso, tant'è che deve provvedere lei stessa a ravvivare l'ambiente con le sue azzardate mise, che non mancano mai di farsi notare (non per niente Delia gode fama di accreditatissima icona camp).
Persino suo fratello Claudio – che pure è un artista, e per giunta omosessuale – è decisamente sottotono. Non entriamo mai nel teatro dove si esibisce, lo vediamo esclusivamente all'esterno del suo regno (che si presume molto colorito) e il suo contegno è notevolmente ordinario, tanto che riesce a far appassire i suoi abitini dai colori pastello; persino i suoi battibecchi con la sorella sono ben poco flamboyant.
L'incontro tra i due fratelli alla stazione è iconico proprio per la sua sinteticità anti-drammatica. Delia adocchia il suo ciuffo argentato e chiede, con il suo accento abruzzese che rende indistinguibili le consonanti, «Ma che, sei tinto?». Lui conferma con indifferenza. Al che lei domanda «Ma non è che fossi...?», interpretando automaticamente la valenza di quel ciuffo; lui annuisce meccanicamente per la seconda volta. Evidentemente a Parigi possono esistere forme di vita omosessuale che non siano né “velate” al di sopra di ogni sospetto né checche fosforescenti e autoreferenziali.
Se Parigi o cara è un film speciale lo si deve naturalmente a Delia, divisa tra il suo micragnoso sistema di valori e il suo desiderio quasi drammatico di ottenere dalla vita qualcosa di più. Così insopportabile e proprio per questo così buffa, è probabilmente la più tridimensionale delle “bruttine” tratteggiate da Franca Valeri: non assurge allo status di eroina, ma a quello di istituzione sì.