YOU BETTER WERK!

6 dicembre 2015

Viviamo in tempi molto duri per l’umorismo: è di qualche mese fa la notizia che gli organizzatori di una manifestazione pro-fierezza omosessuale a Glasgow hanno vietato la presenza di drag queen perché oltraggerebbero la dignità delle persone transessuali. Come al solito ci sono di mezzo le derive queer che infestano circoli pseudo-alternativi e le bacheche di Tumblr di chi ama improvvisarsi attivista: per qualsiasi battuta di spirito c’è un anti-binarista (o un transracial, o un non-appropriazionista, o un non-cis-qualcosa) che non vuole definirsi perché è un po’ limitarsi, ma di sicuro è pronto anzi, pront* a offendersi a prescindere. Ne consegue che, nell’ottica di molt* pischell*, la comicità dovrebbe essere confinata entro un territorio talmente innocuo che le battute queer-approved non farebbero ridere nemmeno la loro cara vecchia nonna ultranovantenne bianca privilegiata cisgender al cenone di Natale.

Alla noia totale c’è, per fortuna, un antidoto: si chiama RuPaul’s Drag Race, e definirlo un reality show è (in questo caso sì) veramente limitarlo. Si tratta di qualcosa a metà fra una preziosa lezione di Storia gay e una favolosa riedizione di Dieci piccoli indiani senza esclusione di colpi tra potenziali eredi del trono drag, nella convinzione che non ci sia niente che non si possa dire. Già il nome del format è un sagace gioco di parole: una drag race è una corsa contro il tempo motociclistica, nel caso di RuPaul al posto di asfalto e pneumatici ci sono parrucche che sfidano le leggi della fisica e una quantità smodata di colla a caldo e nastro adesivo.

Paris Is Burning è un riferimento costante, e viene più volte citato da RuPaul e dai concorrenti: per fare un esempio, il primo episodio di ogni stagione prevede che le drag creino una mise a partire da stracci o materiale di scarto, secondo quel principio di making something out of nothing che era più che mai forte nella cultura drag dell’Età dell’Oro; l’ultimo episodio, invece, prevede la creazione di tre look per un drag ball, esattamente come quelli che si tenevano a New York, con tanto di categorie e numero musicale introduttivo. Per decretare chi resta e chi se ne va, alla fine di ogni sfida settimanale c’è un lipsync (fooor yooour life!): una drag che non conosce a memoria i testi delle B-side di Paula Abdul e/o non li sa recitare in maniera convincente non merita di giungere all’agognata finale.

Via via, nel corso delle puntate, viene anche snocciolato il gergo drag: to read (anche to throw shade) significa demolire una drag avversaria sottolineandone i difetti in maniera spesso iperbolica; to serve fish significa apparire particolarmente femminile, il che si collega direttamente al concetto di realness (le drag, specialmente un tempo, ambivano a passare per donne eterosessuali in modo da poter camminare per strada meno disturbate che se ci avessero camminato come uomini gay); to tuck è far risalire i testicoli nelle accoglienti sacche da cui sono discesi e appiattire il resto con lo scotch, per quanto possibile (spesso i concorrenti vengono chiamati squirrel friends, perché come gli scoiattoli nascondono le noci); to walk e to werk significano essenzialmente competere, esibirsi, sfilare.

Se è vero che le drag più politicamente scorrette in televisione non ci vanno — basti pensare a Lady Bunny, storica compare di RuPaul, che in otto anni si è sempre categoricamente rifiutata di partecipare alle riprese — dalla scuderia di RuPaul sono uscite tante regine che vale la pena menzionare: in primo luogo Sharon Needles, davvero imbattibile quanto a poliedricità, impertinenza e cultura (celebre il tatuaggio di Tammy Faye Messner che porta sull’avambraccio sinistro, come anche la sua interpretazione post-mortem di Joan Rivers, grande fan dello show). Va ricordata anche Willam, un’adorabile Stronza con la esse più maiuscola che si possa immaginare: impossibile non conoscerla, tra le sue cover di Alicia Keys che celebrano la passività in ogni lingua del mondo e le sue innumerevoli partecipazioni a serie televisive di successo. Decisamente sulla cresta dell’onda è Bianca Del Rio, insult comic con una velocità strabiliante nell’adattarsi a ogni platea e una sana imperturbabilità nel far ridere di argomenti come disabilità, AIDS e Terzo Mondo. Voglio citare anche la povera Mimi Imfurst, prematuramente esclusa da entrambe le stagioni a cui ha partecipato e ingiustamente vituperata per aver sollevato di peso l’inutilissima India Ferrah durante uno dei più famigerati lipsync nella storia di Drag Race: Mimi è perfetta quando fa stand-up comedy e ha una carriera musicale di tutto rispetto.

A contribuire alla riuscita del programma sono anche gli ospiti, che in alcuni casi sono veramente eccellenti: nella settima stagione John Waters ha giudicato i tentativi (mediamente molto maldestri) delle concorrenti di omaggiare Divine; Bob Mackie non si perde un ball neanche per sbaglio; Tanya Tucker, Pam Tillis e Wynonna Judd hanno fatto da rappresentanti per la musica country, molto amata da RuPaul per il suo potenziale camp.

Anche se lo scopo dichiarato del programma è quello di bring families together, naturalmente anche RuPaul è stato oggetto di critiche da parte di person* e attivist* trans e/o gay, tra cui una delle sue ex concorrenti e pupille, Carmen Carrera. La modella, che dopo la partecipazione al programma ha effettuato il processo di transizione, si è scagliata contro il presunto uso transfobico della parola she-male verso l’inizio di ogni episodio e in un quiz dove le drag queen in competizione dovevano riconoscere da un dettaglio del corpo se nelle fotografie a loro sottoposte il soggetto era una donna biologica o una donna trans. Si trattava in realtà di un divertentissimo gioco di parole su you’ve got mail, “c’è posta per te”, che diventava you’ve got she-mail: così RuPaul era solito richiamare l’attenzione delle drag in gara e annunciare in maniera enigmatica il tema della puntata. A nulla è valsa l’ennesima spiegazione su come le drag non vogliano “fare le donne” o prendersi gioco del sesso femminile, ma vogliano proprio fare le drag e al massimo prendersi gioco di loro stesse e di chi le sa apprezzare. A nulla è valso anche il fatto che RuPaul abbia sempre accolto a gambe aperte le donne transessuali che volessero presentarsi come drag queen nel suo programma: purtroppo la produzione ha dovuto cedere all’ondata di sdegno immotivato, rimpiazzando la storica frase di RuPaul con un’altra frase meno storica, meno divertente, meno tutto.

C’è stato un lodevole tentativo di adattare il format statunitense alle esigenze della televisione italiana: si doveva chiamare Drag in Talent e a condurlo sarebbe stata Platinette. Purtroppo tutto finì nel nulla: che mi risulti, durò lo spazio di una sera come breve striscia all’interno di Lucignolo. Dispiace quindi molto per chi non ha padronanza sufficiente della lingua inglese, ma una versione nostrana non esiste e vedere quella originale doppiata in Italiano è severamente vietato dall’art. 1 della Costituzione Gay: fa ridere solo gli anti-binaristi di cui sopra.

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