Uè uè, s'indora l'aria di limoni...

4 maggio 2016

Antonella Cilento insegna scrittura creativa (anche nelle scuole) ed è un’autrice piuttosto prolifica di narrativa, ma dei suoi questo è il primo ed unico libro che ho letto; ed è altresì, se non erro, la prima opera di narrativa da lei pubblicata in volume, ormai sedici anni fa. In realtà si tratta d’un dittico di racconti assai diversi tra loro per tematica, intonazione, taglio e tipo di prosa; e forse sarebbe stato più opportuno stamparli separatamente. Esprimere un giudizio al riguardo in realtà è difficile: che cosa intendesse fare la Cilento scrivendoli non risulta infatti del tutto chiaro: un’esercitazione stilistica?, una provocazione estetica?, un divertimento fuori dai soliti schemi narrativi? O si tratta semplicemente d’una coppia di racconti troppo acerbi? Il primo, Icaro, sembra infatti una storia maledetta di omosessualità maschile ambientata nel Cinquecento, quale l’avrebbe potuta concepire un autore mitteleuropeo di fine Ottocento, tradotta in italiano cinquanta o sessant’anni più tardi; Gran Tour, il successivo, è invece una vicenda che su d’uno sfondo gotico innesta una serie di fantasie sovraccariche le quali ricordano da vicino la napoletanità sulfurea, sanguigna e sopra le righe d’un Mario Martone. Non si può negare il virtuosismo della Cilento, anche se in Gran Tour il guazzabuglio di re Borboni, quadri di Hackert, paesaggi sorrentini, certosa di Padula, un indiano d’America che fa il corsaro, un lama tibetano in viaggio verso la reggia di Caserta, un monaco cattivissimo e maledetto (pugliese, però, e ormai defunto) e i fantasmi di due viaggiatrici francesi che portano la protagonista in un’altra dimensione che arieggia un po’ Alice nel Paese delle Meraviglie, scivolano pericolosamente nel fumettistico: a sostituire la protagonista con Harlan Draka e compagni, se ne potrebbe tirar fuori ad esempio un albo di Dampyr non disprezzabile, salva la maggiore tornitura letteraria della scrittrice partenopea rispetto alla scrittura degli sceneggiatori bonelliani. Quanto al racconto “omosessuale”, meglio sorvolare: che un omosessuale del Rinascimento, laddove gli fosse venuto il ghiribizzo di riferire d’una sua tragica gaya passione antica, potesse scrivere in modo così paludato, contegnoso e circospetto, in un secolo nel quale di certi argomenti o si taceva o ci si profondeva con ben altra salace spigliatezza, era un’idea che appunto poteva venire a un autore del 1900 in vena di decadentismo, se non altro perché allora di certe cose si poteva dar conto solo in maniera sommamente cauta e alata, o a uno del 2000, ma nato nel 1920 e vissuto in provincia, non a una scrittrice allora di trent’anni. Tutto il libro si porta dietro insomma un sentore d’insincerità. Poco male, mi si potrebbe obiettare: bisogna non prenderlo sul serio e considerarlo un mero giuoco letterario. E mi piacerebbe farlo, se non che la prima a prendersi sul serio mi sembra proprio la Cilento: non vedo traccia d’autoironia nei suoi racconti; suonano fasulli e basta: le uniche cose che si salvano sono la qualità della lingua e la vivacità d’una trama delineata e portata sempre avanti con mano sicura.
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