recensione diAndrea Meroni
La morte ha sorriso all'assassino
Abitualmente nei thriller non viene avvalorato il detto «L'ospite è come il pesce: dopo tre giorni comincia a puzzare». Sì, perché nei thriller – di norma – l'ospite dopo tre giorni (anche se la cifra non è tassativa) comincia ad ammazzare, e allora sono gli anfitrioni che iniziano a mandare cattivo odore. Se poi l'ospite è una bella creatura sfuggente, polimorfa e di provenienza incerta, allora è garantito che – prima o durante la macabra kermesse – accadrà anche molto altro.
Può succedere che l'intruso metta il dito tra moglie e marito: ne Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave è Edwige Fenech a girare il coltello nella piaga del matrimonio più disfunzionale che si possa immaginare, cioè quello tra uno scrittore sadico e alcoolizzato (Luigi Pistilli) e una bellona coi nervi a fior di pelle (Anita Strindberg), giacendo alternatamente con entrambi, più vari ed eventuali. Ma in questo caso non è la Fenech a mettere in atto l'inevitabile macello.
Ne La morte ha sorriso all'assassino di Joe D'Amato viene replicato il fatale triangolo (anche qui con qualche lato aggiuntivo), e in più a perpetrare i delitti è proprio l'ospite, che stavolta ha il volto da pulcino stragista di Ewa Aulin, la quale non è affatto nuova a questo genere di “esperienza”: già ne La morte ha fatto l'uovo aveva disintegrato la vacillante accoppiata Trintignant/Lollobrigida.
Gli sposi che vengono corrotti da Greta – la ragazza apparentemente priva di memoria interpretata dalla Aulin – sono i coniugi Walter e Eva von Ravensbruck, un duo non troppo mal assortito, anche se piuttosto insignificante. Entrambi sono comunque ben lieti di iniziare – prima lui, poi lei – una relazione con la smemorata.
«Anch'io sono innamorata di te» dice Eva a Greta, dopo averla annegata appena un pochino nella vasca da bagno. Si presume che quell'“anch'io” sia riferito al marito e non a Greta, visto che quest'ultima non l'aveva degnata di uno sguardo e stava solo cincischiando con la schiuma della vasca (anche se, senza dubbio, stava contestualmente covando piani diabolici). Seguono amplessi tra tutti quanti.
Nonostante sia al corrente dell'intrallazzo tra Greta e Walter, Eva rimane sconvolta sorprendendoli avvinghiati: il fuoco della gelosia la arde da ambo le parti, ma la sua risoluzione è univoca. «Ti amavo con tutta me stessa, era la prima volta che provavo questo sentimento. Tu hai sciupato tutto» afferma compostamente prima di murare viva Greta nella cantina. Poco sorprendentemente il coming out di Eva coincide con l'inizio della sua vocazione di assassina. Ma la sua carriera si conclude con questo singolo exploit, perché Greta tornerà a perseguitare lei, suo marito, il suocero, la servitù e finanche il gatto di casa, in un crescendo di flashback che rivelano, più degli antefatti, la cialtroneria di Joe D'Amato come soggettista.
Quest'ultimo è abile nel dare continuamente l'idea che ci debba essere qualcosa da temere, e a rimandare subdolamente l'immancabile urlo lancinante che trafigge l'aria; ma di tanto in tanto, preda di una schizofrenia autolesionista, manda a rotoli la suspense inserendo delle citazioni visive talmente banali da prevenire qualsiasi salto sulla sedia dello spettatore.
Prendiamo come esempio la scena in cui Eva decide di uccidere Greta: Edgar Allan Poe ci ha insegnato (e Sergio Martino ce l'ha ripetuto – guarda caso – proprio ne Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave) che, se hai un gatto che ti gira per casa e decidi di murare vivo qualcuno, dovrai mettere in conto che in qualche modo il pestifero felino riuscirà a infilarsi dietro la delittuosa parete che avrai pazientemente costruito. Non spaventarti poi se il gatto – nemesi a quattro zampe – sbucherà fuori annunciando la tua rovina con un miagolio più raccapricciante di un unghiata sulla lavagna!
Curioso inoltre notare come una dama dalle mani di porcellana come la von Ravensbruck apprenda a maneggiare calce e cazzuola con la stessa perizia di un muratore bergamasco non appena le punge vaghezza di uccidere qualcuno. Ma il suo non è un caso isolato: al cinema i personaggi – si sa – in base alla comodità degli sceneggiatori possono acquisire all'improvviso abilità superomistiche, oppure mostrare una durezza di comprendonio da far cadere le braccia. Quest'ultimo è il caso di tutti i personaggi che vengono fatti morire nell'ultimo quarto d'ora del film.
Fino ad allora – pur di non buttar via neanche un turbamento goticheggiante o una visione disturbante – Joe d'Amato aveva centellinato le uccisioni, diluendo un brodo senza poi troppi ingredienti. Ma, dal 67° minuto in avanti, va alla ricerca dello splatter perduto: i superstiti si buttano uno dopo l'altro tra le fauci dell'assassina, mettendosi a portata di lama da bravi sprovveduti o chiudendosi in loculi con l'irragionevole pretesa di sfuggire alla morte.
Al netto delle assurdità della trama (una tradizione del cinema di genere coevo), delle scopiazzature e dei momenti di noia, resta un'atmosfera cheap ma passabile di cupezza e perversione che trae vanto dai volti della Aulin, di Luciano Rossi – necrofilo ufficiale del cinema italiano dopo Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile – e di un insolitamente inoffensivo Klaus Kinski, gran sacerdote di tutte le possibili devianze dicibili e indicibili.