Dio li fa poi li accoppia

17 luglio 2016

Dio li fa poi li accoppia è un film interessante, non bello e forse neanche troppo coraggioso, ma sicuramente arrischiato, dal momento che gli sceneggiatori Bernardino Zapponi ed Enrico Vanzina lo usano a mo' di calderone per bollire insieme una gran quantità di argomenti già sufficientemente caldi, col rischio non tanto di scandalizzare ma di perdere le fila del discorso: vengono chiamati in causa stupro e aborto, si tira in ballo la rabbia “universale” dei giovani, si guarda con dubbio al celibato ecclesiastico e – dulcis in fundo – si prende in considerazione (precocemente ma con atteggiamento ambiguo) il desiderio di nozze e di paternità da parte dei gay.

Questo rosario di questioni spinose viene sgranato con una certa naturalezza dalla sceneggiatura, che vede come protagonista un prete onesto e alieno al perbenismo di facciata interpretato da Johnny Dorelli. Molto in breve, ecco la trama: Don Celeste Restani, intelligente parroco/cantautore di un paesino marchigiano, è assillato da un petulante fedele, il salumiere gay Dario (Lino Banfi), il quale vuole a tutti i costi convincerlo a celebrare il matrimonio con il suo amato Marco; i crucci del parroco aumentano a dismisura quando, in occasione del Carnevale, viene violentato da quattro ragazze mascherate. Il vescovo proibisce a Don Celeste di sporgere denuncia, ma lui – conducendo le sue indagini fuori e dentro il confessionale – identifica la colpevole nella giovane meccanica Paola (Marina Suma), la quale non solo si scopre essere incinta, ma anche intenzionata ad abortire. Don Celeste – incurante del rischio di uno scandalo – fa arrestare Paola per stupro, così da impedirle di interrompere la gravidanza. Ne segue un processo affollato da hooligan del femminismo e sul più bello si intromette Dario il salumiere, il quale afferma di aver messo incinta la ragazza, con l'ingenuo proposito di farsi affidare il nascituro dai giudici...

Bisogna essere dei grandi sarti per riannodare tutti i fili pendenti lasciati dall'accumulo di tematiche controverse: lungi dal lanciare il sasso (anzi, i sassi) e tirare indietro la mano, Zapponi e Vanzina fanno un lavoro apprezzabile, riuscendo a trovare delle soluzioni abbastanza coerenti in relazione al provinciale Don Celeste, virtuoso ma non rivoluzionario; purtroppo l'agilità del film comunque risente delle tante svolte e Steno e i suoi sceneggiatori, per conservare la leggerezza complessiva, decidono di sacrificare complessità e sfumature al Dio della Burla.

Prevedibilmente è il personaggio di Lino Banfi, il salumiere gay, a fare maggiormente le spese dell'esigenza di leggerezza, anche se le insistenze dello stesso Banfi per conferirgli una dimensione profonda e auto-riflessiva gli impediscono di diventare la solita macchietta scervellata; ciò non toglie che l'“omobarese” del Lino Nazionale – qui alla vetta del suo falsetto – sia dilettevole anche quando i suoi personaggi non lasciano intravedere la propria “anima”.

Dario il salumiere ha una caratterizzazione in parte tradizionale: ha la tendenza a posare le mani sul primo corpo virile che gli capita a tiro, ha arredato la sua casa nel più rigoroso stile “Bambola di Pekino”, il suo vestiario (opera del costumista prediletto da Steno, Silvio Laurenzi) è oltremodo fantasioso, e la sua effeminatezza incontrollabile lo rende oggetto della “cordiale omofobia” tanto spesso illustrata e solleticata dal cinema italiano.

Meno usuale (anche in epoca post-Vizietto) è il suo rapporto esclusivo con un uomo, tale Cotichelli Marco, una specie di orco muscoloso con una virago per moglie. Dario vorrebbe che Don Celeste benedicesse la loro unione, ma il buon parroco – con il quale il pubblico è chiamato a identificarsi – dice senza mezzi termini che la richiesta di Dario è una bestemmia, a dispetto delle incoraggianti parole proferite appena il salumiere si era dichiarato gay in confessionale: «I tuoi istinti te li ha dati la natura, cioè Dio... chissà perché». L'opposizione del prete all'idea “blasfema” del matrimonio non pare convincente a Dario: «D'altronde uno che è sposato a Gesù questi problemi li deve capire». Fatale ingenuità!

Nel corso di un gemellaggio con una cittadina olandese, Dario ha modo di espandere i propri orizzonti, scoprendo che gli omosessuali possono legittimamente aspirare ad avere una famiglia con annessi e connessi. Appena sceso dal pullman viene salutato da una coppia di marito e marito con tanto di carrozzina e puttino biondissimo all'interno; si scoprirà più tardi che i due sono stati uniti dal sindaco della città e che il bambino gli è stato dato in affido fino all'età di diciotto anni. Ma chi viene chiamato a impersonare questa avveniristica coppia? Uno dei due è il prezzemolino Franco Caracciolo, l'omosessuale per antonomasia del cinema italiano, abbinato a uno sconosciuto figurante ricciuto, di virilità pari o inferiore a quella di Caracciolo...

La scarsa “eteronormatività” della coppia è decisamente sospetta: uno dei fattori che avevano aiutato il pubblico nazionale ad apprezzare Renato e Albin ne Il vizietto era il fatto che la parte mascolina e quella femminile della coppia fossero rigidamente distinte. Il fatto che questi due gay olandesi siano entrambi degli “Albin” fa sospettare che Steno e il suo staff non avessero pensato neanche per un secondo di rendere digeribile o anche solo plausibile per lo spettatore italiano l'idea del matrimonio e dell'adozione da parte degli omosessuali: basta questa scelta di casting a invalidare implicitamente le ambizioni dell'“invertito di provincia” Dario e a ricondurre lo stile di vita di Caracciolo e della sua dolce metà a una bizzarria degna dei mondo movies.

A voler guardare questo stesso aspetto da un'altra angolatura, si può pensare che Steno (un liberale “prima maniera”, come lo definisce spesso il figlio) fosse talmente avanti da voler attribuire una dignità familiare “persino” a una coppia che risultava irriconoscibile come tale dallo spettatore medio. Probabilmente questa ipotesi è troppo benevola ma soprattutto fuori contesto: parliamo pur sempre di cinema popolare italiano, dove è difficile che ciò che viene mostrato non corrisponda con ciò che il regista vuol significare, specialmente in casi macroscopici come questo.

È a causa di questa rilevante ambiguità che Steno fa qualche passo indietro rispetto al traguardo de La patata bollente, risalente a due anni prima e più cristallino nel messaggio, per quanto Dio li fa poi li accoppia ne condivida l'idea di fondo: in Italia tanto nelle grandi città come in quelle piccole si dimentica che la ricetta migliore per tirare avanti è il chimerico “vivi e lascia vivere”; il personaggio di Banfi infatti ritorna dall'Olanda (patria dei diritti gay anche secondo La patata bollente) affermando di fronte ai suoi compaesani impiccioni e frustrati che la grandezza di quel paese stia nella capacità di ognuno di farsi gli affari suoi.

Un altro momento di gloria di Dario/Banfi è la scena in cui fa un forsennato coming out in tribunale («Sì, sono gay, e sono felice di esserlo! Che cos'è? Una malattia infettiva? È la lebbra? È la peste? Io sono felice perché è un modo di vivere bellissimo, ma voi che ne sapete?»), esasperato per essere stato deriso quando ha affermato di essere il padre della creatura portata in grembo dalla violentatrice di Don Celeste. È il suo desiderio di paternità incompreso a dare la stura a questo fragoroso moto d'orgoglio, accolto con l'inevitabile misto di indignazione e di ilarità. Lino Banfi ha rivendicato con fierezza l'ideazione di questa scena, utile a mostrare l'altra faccia della “cordiale omofobia” di cui sopra: appena Dario reclama il diritto di esistere pubblicamente e di essere preso sul serio, rompendo le secolari catene del macchiettismo, la popolazione del paese comincia a bersagliarlo con astio, imbrattando la serranda del suo negozio con un fiume di sinonimi di “frocio”.

Come anticipato, se la credibilità psicologica del personaggio è buona, le coloriture del ritratto sono un po' troppo pittoresche per il gusto del XXI secolo; la colpa non è solo di Banfi, ma anche di Steno che l'ha spronato a non contenere le scheccate.

Anche il personaggio di Marina Suma è meglio sulla carta, ma qui la colpa è tutta dell'attrice; sulla sua recitazione ci sarebbe da scrivere un trattato: gli occhi sono immobili, la bocca si muove separatamente dal resto del volto e la monotonia della voce non combacia con la mimica. Johnny Dorelli, dal canto suo, è competente e misurato e favorisce lo snodarsi del film anche nei momenti più faticosi; ciononostante il tutto rimane poco sfizioso a dispetto della molta carne al fuoco.

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