recensione diAndrea Meroni
Labbra di lurido blu
Quasi tutte le recensioni dedicate a Labbra di lurido blu si dilungano sui pregi del titolo medesimo, molto più celebre del film in sé: c'è chi ricorda che si tratta della traduzione infedele di un verso di Shelley e c'è chi constata che c'è parecchio blu (e parecchio luridume) spalmato tra le inquadrature del film. Forse però il merito maggiore di questo titolo è di comunicare l'essenza del film già soltanto col suo suono, grazie alle sue perverse allitterazioni, alle sue L scivolose e alle sue R crudeli collocate strategicamente. Basta il suono delle quattro parole Labbra di lurido blu per far intuire la natura del film, che è concettoso, molto denso e un po' melenso, seducente in modo malaticcio come piaceva agli Scapigliati.
Il genere si aggira tra il drammatico e l'erotico, ma l'erotismo non è estetizzante e i drammi non sono urlati. Questo permette ancora oggi non di godersi il film, bensì di entrare nella sua cappa di malattia e di lasciarsi contagiare dalla sua intensità.
È proprio l'intensità complessiva (di cui è difficile rintracciare razionalmente l'origine: sarà la musica di Morricone? saranno gli interpreti? sarà l'illuminotecnica?) che permette di interessarsi a quattro personaggi i cui profili psicologici freddi e freudiani sono pensati a tavolino per condurli nel baratro. Ecco le qualifiche di questi “topi di laboratorio” – uniti in un quadrilatero di odio e di amore – studiati dal regista-sceneggiatore-montatore-produttore Giulio Petroni:
Elli, interpretata dalla generosa Lisa Gastoni, è una ninfomane. Spinta da impulsi incontrollabili e da lei stessa aborriti, va a cercare il sesso nei contesti più tetri e degradanti, dividendosi tra avvinazzati tavernicoli (ossia cavernicoli da taverna) e callosi giardinieri. Questa sua pulsione verso l'abbrutimento è da ricercarsi in un trauma infantile: l'indelicato padre possedeva e palpava la madre noncurante della sua presenza.
Suo marito, il professor Marco – impersonato da Corrado Pani, reso sbattuto e vampiresco dai capelli impomatati portati all'indietro – è un omosessuale irrisolto, persuaso di essere stato traviato dal suo vecchio “amico”, un antiquario inglese (perché l'omosessualità è un vizio rigorosamente importato dall'estero, Certo, certissimo, anzi... probabile docet). Per “curarsi” si aggrappa tenacemente al rapporto con la moglie, soffrendo dei suoi tradimenti compulsivi fino a precipitare in uno stato di apatia destinato a sciogliersi nel peggiore dei modi, cioè con un canonico suicidio (imprescindibile per l'omosessuale drammatico). Il quadro non sarebbe completo se anche Marco non avesse alle spalle un bel trauma adolescenziale: un padre fallocrate lo aveva spinto tra le braccia di una prostituta obesa e dalla lingua tagliente, accosciata come una scrofa in un fienile. Marco si era sottratto a questo olocausto, scontentando il dio della Virilità, e la sua fine era stata così sancita.
L'antiquario George Stevens, interpretato dal torreggiante Jeremy Kemp, è l'omosessuale convinto che ha fatto da Pigmalione a Marco. Si tratta di un personaggio stereotipato all'inverosimile, tanto da risultare originale. È il classico ricco corruttore, brutto, esangue e reso antipatico da una fastidiosa inclinazione al citazionismo (a un certo punto, con aria secchionesca, chiede a una contadina se conosce un verso di Baudelaire...). Petroni gli conferisce un'aura da super-villain, con mezzi e obiettivi più modesti del bondiano Blofeld ma con una propensione analoga a circondarsi di gregari eccentrici. Al suo servizio ha infatti un avvenente motociclista che gli serve da messaggero e da spia, ma soprattutto un trio di travestiti leather (Franco Caracciolo, Alberto Tarallo e Paolo Pazzaglia) che all'inizio del film – tra smorfie lisergiche e versetti satanici – strapazza e denuda Elli per costringerla a rinunciare alle nozze con Marco: una scena circense e stralunata di un gusto più che cattivo, ma che comunque si incide nella mente dello spettatore. Non essendo riuscito a evitare il matrimonio di Elli e Marco, Stevens si ritira a tramare nell'ombra, rifacendo capolino solo per aggravare la crisi esistenziale di Marco e rimanendo minacciosamente impassibile mentre questi gli sputa addosso tutto il proprio disprezzo (per se stesso).
Lo scrittore emarginato Davide Levi (Silvano Tranquilli) è il personaggio più privo di interesse; si tratta un verboso solitario che può solo vantarsi di essere l'unico uomo che Elli sia riuscita ad amare, la qual cosa ovviamente non porterà fortuna a nessuno dei due (anche dal punto di vista della qualità della sceneggiatura, che sconfina nel cliché).
A margine troviamo altri due personaggi, forse i più amabili di tutto il film: una contadinella perugina selvatica e irascibile (Daniela Halbritter) e un fattore milanese grossolano ma decente a livello interiore (Gino Santercole). Le loro schermaglie amorose offrono al film un contrappunto di dolcezza quasi animalesca; lo spettatore però è costretto a guardare con sospetto questa dolcezza, nel timore che anche i teneri rapporti tra questi forastici amanti vengano inquinati dalla violenza che pende su tutto il film, popolato esclusivamente da anime brutte.
Non è facile dare un giudizio netto di Labbra di lurido blu: a voler fare elementari distinzioni tra “bello” e “brutto”, la bilancia scivolerà facilmente dalla parte del brutto, ma non di quello scialbo e anonimo, bensì del brutto suggestivo, speciale e – per strano che possa sembrare – soddisfacente.