recensione diAndrea Meroni
Il vizietto II
Tendenzialmente il sequel brutto di un film cult non aggiunge né toglie nulla al prototipo. Il vizietto II è un'eccezione vistosa perché ha il potere di proiettare un'ombra di sospetto sul suo importantissimo predecessore, pur non potendo fisiologicamente essere pessimo, dato che gli interpreti e gli autori sono gli stessi.
Persino alcuni critici militanti, di solito molto severi nei confronti del cinema di cassetta, avevano concesso al film il beneficio del dubbio: sì, Il vizietto era una sfilata di cliché, ma i personaggi erano comunque incarnazioni attendibili di un particolare tipo di omosessualità – borghese e sopra le righe – non meno degno degli altri. «Di omosessualità ce ne sono tante e tutte diverse. L'omosessualità non è il denominatore comune che unifica i froci del mondo, anzi è spesso quello che più divide» scriveva Pietro Tarallo su Lambda. Inoltre l'atteggiamento degli attori e degli sceneggiatori era sufficientemente rifinito da far pensare che la risata che si voleva strappare al pubblico non fosse la consueta sghignazzata derisoria, ma qualcosa di più affettuoso e partecipe.
A tutto questo si aggiunge il fatto che – man mano che la comunità LGBT italiana ha cominciato a propendere per la “normalizzazione” e a voler vedere riconosciute le proprie coppie – Renato e Albin non sono stati più additati come vecchie checche borghesi e reazionarie. Progressivamente sono assurti a modello di felicità coniugale alternativa, pieno di dignità e dolcezza: sono diventati la coppia per eccellenza del cinema popolare, formata sì da due personalità standardizzate... ma pur sempre due personalità degne di questo nome.
Ciononostante capita spesso che spettatori inesperti o superficiali ricordino Il vizietto come l'esempio più classico della rappresentazione macchiettistica degli omosessuali. Così facendo commettono un torto grave nei confronti de Il vizietto originario, ma prefigurano le colpe de Il vizietto II, il cui principale capo d'imputazione – a detta di chi scrive – è di annientare i caratteri di Renato e Albin. Le loro anime restano sepolte sotto una valanga di gridolini (triplicati rispetto al primo capitolo). Ugo Tognazzi se la cava dissimulando col suo minimalismo una certa disaffezione per il personaggio, che serve semplicemente come zerbino di Albin. Pure quest'ultimo è ridotto – stavolta sul serio – a una macchietta ipertrofica, ma darne la colpa a Michel Serrault può sembrare lesa maestà: nell'intrico delle corresponsabilità, si può dire che persino un bolide della comicità come lui ha bisogno di tirare il freno ogni tanto, ma nella sceneggiatura i freni sono guasti.
Enrico Vanzina, che ha lavorato con Serrault nel 1980 in occasione de Il lupo e l'agnello, ha ricordato che il grande attore francese si sentiva imprigionato dal ruolo di Albin (prima de Il vizietto era stato protagonista di 1800 repliche della commedia di Jean Poiret da cui è tratto). Proprio ne Il lupo e l'agnello Serrault ha colto l'occasione per concedersi una piccola ma cinica vendetta; in questo film interpreta Leon de Paris, un parrucchiere costretto a fingersi omosessuale per essere più credibile nella sua professione; quando la sua famiglia viene presa in ostaggio da un bandito incarnato da Tomas Milian e la casa viene assediata dalle forze dell'ordine, sentiamo Leon/Serrault suggerire a Milian di dare del “frocio” al poliziotto che conduce le trattative perché «fa sempre effetto». Esattamente la stessa cosa succede ne Il vizietto II: Albin decide di camuffarsi da eterosessuale; uscendo dal negozio dove ha rinnovato il proprio guardaroba, travolge un'auto di passaggio e subito apostrofa il conducente urlandogli «Ehi, frocio!» con voce gutturale. Evidentemente gli sceneggiatori dell'epoca – sia italiani che francesi – ritenevano una gratificazione impagabile dare del “frocio” al primo venuto.
Un altro demerito de Il vizietto II sta nella trama: se nel primo capitolo il plot era incentrato su una reale problematica della condizione degli omosessuali (la necessità di nascondersi per non creare dolori o problemi ai propri familiari), l'intreccio de Il vizietto II è una banale storia di spionaggio che permette di sfruttare Albin e Renato a mo' di semplici clown. Ed è questo aspetto che induce a rileggere anche Il Vizietto originale in una luce meno benevola: forse avevano ragione gli attivisti perfidi che lo vedevano come un film di subdola exploitation, con i froci eletti a buffoni a tempo pieno? No, non avevano ragione, ma l'incapacità di Édouard Molinaro e di Jean Poiret di “rimanere in tema” sfornando un soggetto in sintonia col primo episodio è una grossa delusione.
Una volta esaurito il furore dell'attivista, tocca al critico valutare i pregi formali de Il vizietto II, che non sono tantissimi: il regista Molinaro non ha la mano svelta né con la commedia – come già attestava il primo episodio – né con l'azione, ma le scene di travestitismo multiplo riescono comunque a incidere un sorrisetto anche sul grugno dello spettatore più immusonito. Una scena godibile è quella in cui Marcel Bozzuffi e gli altri agenti del controspionaggio sono costretti a bardarsi da checche, così da non dare nell'occhio mentre sorvegliano Renato e Albin. «E mi raccomando: morbidi e flessuosi!» ringhia Bozzuffi, intimando ai suoi sottoposti di lasciarsi plasmare a immagine e somiglianza di Albin, mentre Tognazzi si atteggia a teorico dell'effeminatezza: «Dovete tracciare una linea ideale, la linea che separa l'uomo dalla donna».
Per il resto – anche se Renato e Albin continuano fastidiosamente a dimostrarsi privi di qualsiasi malizia – parecchie battute volano molto basso. Alcune sono addirittura razziste (rivolgendosi al mitico domestico di colore Jacob, Albin sibila «Torna sul tuo albero di cocco!») e il ritratto del paesino italiano dove vive la madre di Renato (Paola Borboni) dà sui nervi: l'omertà e l'omofobia regnano incontrastate e le donne sono asservite ai mariti, tanto che persino Albin decide che in Italia essere una donna non gli conviene.
Ammettiamo pure che Il vizietto II non comprometta la nomea del suo illustre predecessore... sicuramente mostra che – una volta esaurite idee e finezze – i suoi autori attingevano, come quasi tutti i loro coetanei, a un umorismo meritevole della completa estinzione.