Roma bene

8 settembre 2016

Ne Il giudizio universale (1961) Vittorio De Sica si era avvicinato a sterminare decine e decine di celeberrimi primattori e caratteristi sia nazionali che internazionali (da Alberto Sordi a Fernandel, da Franco e Ciccio ad Ernest Borgnine), ma poi li aveva salvati in extremis prorogando a data imprecisata il giorno del giudizio.

Dieci anni dopo Carlo Lizzani si è spinto molto oltre, giustiziando senza processo una schiera quasi altrettanto nutrita di volti celebri del cinema nostrano in Roma bene (da Virna Lisi a Vittorio Caprioli, da Gigi Ballista a Irene Papas), condannandoli a una morte tanto cretina da esser degna di un premio speciale ai Darwin Awards.

Questo demenziale eccidio collettivo (di cui non svelo la natura) è sintomatico del disprezzo con cui vengono trattati tutti i protagonisti di questo film, fatta eccezione (ma neanche tanto) per il sentenzioso commissario Quintilio Tartamella, interpretato da Nino Manfredi, incaricato di rovistare – con mille riguardi – tra i panni sporchi della Roma bene del titolo.

Tartamella – con la sua aria di pigro compatimento per tutti i riccastri infelici con cui è costretto a relazionarsi cerimoniosamente – è una specie di Tenente Colombo più elegante e sputasentenze ma del tutto immune al fascino degli ambienti sontuosi in cui si introduce (le spettacolari scenografie sono di Flavio Mogherini), e in più soggetto a mille pressioni che il Tenente Colombo manco si sogna. Mentre l'eroe televisivo americano può far friggere sulla sedia elettrica milionari e notabili d'ogni sorta, per Tartamella è già un lusso ottenere un mandato d'arresto.

Ma tanto provvede il fato a far giustizia tra gli impuniti padroni della Capitale: il film mette in fila cinque/sei storielle prevedibili ma cattive di ricatti, omicidi tra amici e corruzione. I protagonisti sono tutti collegati (e imparentati) a vario titolo e il finale li riunirà nell'adempimento della preannunciata punizione biblica. Tutte le storielle sono divertenti ma mai sottili, tenute insieme da qualche leit-motiv non originalissimo (come i tentativi della maliarda miliardaria Irene Papas di ammazzare il marito) e da una metafora “intestinale”: il mellifluo Vittorio Caprioli è un ladro che inghiotte i gioielli delle amiche, salvo poi restituire il maltolto con l'aiuto dell'olio di ricino offerto da Tartamella, e il figlio di Virna Lisi, dopo aver simulato il proprio rapimento, viene smascherato dall'analisi delle feci che rivelano un pranzo troppo sopraffino per qualcuno che sostenga di essere stato tenuto prigioniero in una caverna.

Nei vari bozzetti di aristocrazia corrotta non può non figurare qualche esponente del Terzo Sesso: il panciuto Giancarlo Badessi (interprete abituale di personaggi lubrichi, come un frequentatore di saune che subissa di attenzioni Luc Merenda nello squinternato Action di Tinto Brass) impersona un assessore che l'aristocratica palazzinara Senta Berger tenta invano di corrompere con le proprie grazie. Badessi respinge il suo piedino sotto la tavola, così da non avere intralci nel raggiungere la scarpa del marito della Berger, Umberto Orsini. Quest'ultimo passa, in poche frazioni di secondo, dallo sbigottimento alla rassegnazione; intercedendo in favore della moglie, offre la mano alle carezze del libidinoso politico con fair-play autenticamente nobiliare.

Giocando con le simmetrie, gli sceneggiatori Vincenzoni e Badalucco attribuiscono un'amante same-sex (Annabella Incontrera) anche alla perfida Michèle Mercier, moglie di Franco Fabrizi, un maneggione sfortunato. Per aggiungere torbido al torbido, Annabella Incontrera (incarnazione della lesbica attraente e mascelluta tanto cara agli italici gialli di quegli anni) è la tenutaria della fastosa casa di appuntamenti dove la Mercier si prostituisce per passare il tempo.

I personaggi affidati a Badessi e alla Incontrera tanto per cambiare non hanno una caratterizzazione edificante, così come nemmeno i loro accompagnatori bisessuali, ma non sono sicuramente loro i personaggi più disdicevoli della trista galleria offerta da Roma bene e il finale, con imparzialità, li destina alla stessa morte balorda.

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