L'insegnante - Una terapia riparativa chiamata Edwige

18 marzo 2017

Se gli storici del futuro (o meglio, di un futuro non distopico o neo-medievale) dovessero giudicare l'Italia del ventesimo secolo avendo a disposizione come testimonianze solo film come L'insegnante e derivati, la loro valutazione sarebbe giustamente impietosa: l'Italia era un paese barbaro costruito sul ricatto, l'abuso e la concussione, oltre che sul disprezzo del libero arbitrio femminile.

L'insegnante, diretta appunto dal “barbarico” Nando Cicero, è un collage di battute che manderebbero in visibilio i tanti detrattori del politically correct, i nostalgici dei bei tempi in cui si potevano spensieratamente e gratuitamente chiamare le cose col “loro nome”, nello specifico i gay “froci” e le donne “puttane”. Decisamente illuminante in tal senso è questo passaggio della sceneggiatura (firmata da Tito Carpi e Francesco Milizia): «Alle donne i finocchi ci piacciono, un po' per tenerezza, un po' per compassione: ci danno confidenza e piano piano si mettono in testa di farci cambiare idea. E allora quello è il momento buono per approfittarne».

Questo mini-trattato di psicologia spicciola è enunciato dal liceale decerebrato La Rosa Ciccio (Stefano Amato, il ragazzotto rosso di Malizia) per convincere il suo amico Mottola Franco a fingersi gay per indurre l'insegnante del titolo, la stoica Edwige Fenech, a “immolarsi” per convertirlo all'eterosessualità. Questo trucco vecchio come il mondo (o per lo meno come la pigrizia degli sceneggiatori) costituisce la svolta determinante del film, incentrato – esattamente come Malizia – sulle ossessioni erotiche di un ragazzino viziato e intimamente violento, pronto a qualsiasi tipo di sopruso pur di possedere l'oggetto del suo desiderio.

Quando il pestifero Mottola Franco si lascia convincere dal compagno di scuola a fingersi “arruso” (la commedia è ambientata in Sicilia, ancora una volta), subito mette a punto la camminata “molle” che dovrebbe costituire la prova della sua omosessualità, supervisionato da La Rosa Ciccio. Questo momento è un rovesciamento della celebre scena dell'odioso Tè e simpatia di Vincente Minnelli in cui il femmineo John Kerr viene istruito da un compagno di college per camminare virilmente. Mentre Mottola Franco si esercita ad ancheggiare, sopraggiunge l'insegnante di educazione fisica (Gianfranco D'Angelo) che rimane di stucco: «Ma Mottola fosse un po'... [ricchione]? Ah, così si impara!».

Quando Edwige Fenech comincia a dare ripetizioni a Franco lo trova tutto composto e azzimato, intento a fare un centrino (in questa sequenza Alfredo Pea assomiglia stranamente a Mario Mieli). La finzione di Franco viene supportata involontariamente dalla sua apprensiva madre (Francesca Romana Coluzzi, doppiata da Oreste Lionello!). Plagiata dalle sconclusionate rubriche psicoanalitiche dei rotocalchi e allarmata dalla presenza di un invertito nell'albero genealogico del marito, la signora Mottola è convinta che il figlio stia diventando anormale e ipersensibile a causa delle frequenti assenze del padre deputato. L'Onorevole Fefè Mottola (Vittorio Caprioli) a onor del vero dedicherà un po' di attenzione al figlio solo quando la madre insinuerà che egli sia “una libellula”. Ovviamente la reazione dell'Onorevole è quella di portare il figlio prima dal dottore poi in un bordello.

La madre dal canto suo si confida con la Fenech, la quale razionalisticamente dice «È anche un fatto naturale perché tutti gli esseri umani quando sono in embrione sono bisessuali». «Ma io ebbi una gestazione virile!» risponde la signora Mottola. Questo è uno dei dialoghi più pregevoli del film, supportato almeno dai caratteristi jolly del cinema di genere: Mario Carotenuto, Enzo Cannavale, Alvaro Vitali, più un depresso Carlo Delle Piane.

Di gay effettivi non ne compaiono: l'omosessualità è un espediente che viene accantonato presto, perché appena l'Edwige – mossa a pietà – offre a Mottola Franco una mano, lui si prende subito tutto il braccio. E non solo.

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