recensione diAndrea Meroni
Il petomane
«Niente di ciò che riguarda l'uomo dalla vita in giù mi è alieno»: parafrasando Terenzio, questo potrebbe essere il motto inciso sulla tomba del regista Pasquale Festa Campanile, il quale è stato uno dei cineasti italiani in odore di autorialità più assidui nel frequentare le problematiche intime del Primo, del Secondo e del Terzo Sesso.
Il petomane – suo penultimo film – è un momento abbastanza alto della sua filmografia, forse perché la ricostruzione di un'epoca passata lo spinge (come già ne Le voci bianche) a muoversi con una certa compostezza. Festa Campanile tratta con affetto e compartecipazione emotiva la figura di Joseph Pujol (1857-1945), il celebre modulatore di flatulenze della Belle Époque, l'uomo che faceva girare l'economia del Moulin Rouge. L'interpretazione di Ugo Tognazzi a sua volta gli conferisce pudore e nobiltà d'animo, mentre la sceneggiatura di Medioli, Benvenuti e De Bernardi – prodiga di argomentazioni retoriche sulla sociosemiotica del peto – ruota attorno a due fondamentali paradossi: Pujol, benché si sostenti facendo ululare il proprio didietro, è un uomo più fine di quelli che lo circondano; eppure Pujol – per quanto pubblicamente rivendichi l'artisticità del suo operato – si vergogna della propria abilità proprio con l'unica persona che lo ama incondizionatamente, la candida violoncellista Catherine (la fatata Mariangela Melato). Sarà proprio lei a rassicurarlo sul fatto che il suo prodigioso sfintere non sia secondo a nessuno strumento musicale canonico.
La volgarità è nello spirito, non nel corpo: questa è la tesi del film, che tenta di volteggiare sopra il dirupo della grossolanità proprio come la piuma che Pujol tiene sospesa con le proprie emissioni inodori durante una dimostrazione in tribunale. Qualche caduta di stile comunque c'è...
Durante una festa organizzata dalla patrona delle arti Misia Edwards, Pujol viene bersagliato dai lazzi dei raffinati ospiti che rispolverano battute da scuole medie. Pujol, infastidito, viene preso da parte da un amichevole Arnold Schönberg, sinceramente interessato alle “inedite” sonorità del Petomane. Sopraggiunge anche la Edwards, scortando nientepopodimeno che André Gide (anacronisticamente ritratto come un ventenne, mentre la vicenda si svolge alle soglie della Grande Guerra), interpretato da Sebastiano Lo Monaco. Gide, con voce cantilenante e lamentevole, traccia un parallelismo tra se stesso e Pujol: entrambi con la propria arte si battono contro il “pensiero dominante”. «L'aerofagia è il tabù che Lei ha scelto da infrangere. Il mio... è più doloroso» dice Gide con languida sofferenza, subito prima di svanire. Pujol – che evidentemente non ne mastica di letteratura – chiede lumi a Schönberg, il quale svela l'arcano: «Pare che a farsi infrangere il tabù faccia un male cane. Se vai a trovarlo stai attento alle tue corde vocali».
Al di là dell'evidente controsenso di questa maldestra facezia à la Alvaro Vitali, il compositore viennese mostra di non essere affatto alieno alla pruderie dei suoi colleghi, cadendo a piè pari in un equivoco analogo a quello da loro commesso nello snobbare Pujol: così come l'arte del Petomane non va confusa col meteorismo, allo stesso modo l'omosessualità di Gide non va ridotta alla sodomia, indipendentemente dal ruolo centrale che l'ano ha nell'attività sia di uno che dell'altro.
Gide riappare molto più tardi nel film, nelle vesti di testimone a favore di Pujol, processato per oscenità. Con parole alate, l'autore del Corydon dimostra ai giudici che la “cultura alta” – da Marziale a Swift, dall'Alighieri a Montaigne – non è allergica ai peti. La causa viene vinta da Pujol con una certa facilità, mentre il personaggio di Gide si eclissa nuovamente per continuare la propria donchisciottesca lotta contro quell'altro tabù, quello più doloroso...