Bella, ricca, lieve difetto fisico, cerca anima gemella

1 ottobre 2017

I film di Nando Cicero sono tanto più gustosi quanto più “cadono in basso” e Bella, ricca, lieve difetto fisico, cerca anima gemella ha dei momenti talmente terra-terra che persino il rodatissimo Carlo Giuffré sembra autenticamente mortificato per l'orgogliosa volgarità delle situazioni in cui viene coinvolto. Il suo Tuca Tuca con una macellaia aerofaga interpretata dall'espansiva Gina Rovere è uno di quei momenti in cui il senso di Nando Cicero per il greve viene magnificato, arrivando allo zenit con un montaggio analogico che assimila il didietro strombazzante della Rovere al tubo di scappamento della sua stessa automobile. Un altro momento altissimo nella sua bassezza è quello in cui Giuffré – seduttore seriale di vedove ricche a cui la dea Fortuna ha voltato le spalle – viene assalito dalla lussuriosa Rovere in una cella frigorifera piena di quarti di bue: viene sbattuto al muro e trascinato verso il suolo, mentre alle sue spalle si disegna una traccia di sangue lasciata dalla carne macellata.

Poco prima è stato parzialmente sbranato – con esiti un po' meno divertenti – da un'altra vedova, stavolta tendente alla licantropia; costei è interpretata dalla napoletana Elena Fiore, già mostrificata l'anno precedente dalla Wertmüller in Mimì metallurgico, ferito nell'onore per mezzo di grandangoli spietati che ingigantivano le sue natiche. Questa trovata della Wertmüller all'epoca suscitò lo sdegno della giornalista femminista Patrizia Carrano, la quale – nel suo libro del '77 Malafemmina, dedicato alla rappresentazione della donna nel cinema italiano – ha accusato non infondatamente la celebratissima regista romana di aver interiorizzato ed estremizzato la misoginia propria dei suoi colleghi uomini...

Tornando a Nando Cicero, accusarlo di misoginia è come sparare sulla Croce Rossa, benché stavolta lui e i co-sceneggiatori Onorati e Continenza cerchino a tutti i costi di trascendere i limiti consueti per i cineasti coevi. Nella seconda parte del film (la meno riuscita), la sua “tesi” viene esplicitata: l'uomo, per quanto tenti di sfruttare le donne, ne rimarrà invariabilmente vittima. Per avallare questo improponibile messaggio, Cicero tira in ballo – cosa abbastanza rara nel cinema italiano – la causa femminista: un gruppo di guerrigliere – tra cui si riconoscono Franca Sciutto e Barbara Herrera – appartenenti alla fantomatica Corrente Estremista del MOLIFE (Movimento di Liberazione Femminile) tendono un agguato a Carlo Giuffré, usando come esca Marisa Mell la quale si finge un'angelica verginella in cerca di marito.

Le virago occhialute costringono Giuffré a improvvisare uno spogliarello, perché esperisca l'umiliazione delle donne oggettificate dallo sguardo maschile; il malcapitato poi rischia di essere marchiato a fuoco su una natica, finché Marisa Mell non si ravvede e non chiama la polizia. Il commissario (Alfredo Tomas) esordisce chiedendo paternalisticamente ai suoi subordinati di non usare la forza perché «sono solo donne», ma poi cambia idea non appena le femministe cominciano a menar le mani (mirando ai genitali degli agenti). Nella sequenza successiva il commissario supera se stesso, imponendo sostanzialmente a Carlo Giuffré di stuprare Marisa Mell per vendetta, così da recuperare il suo perduto onore di Maschio. [È significativo notare come, quando è un uomo a subire violenza da una donna, la Legge decida di soprassedere perché la parte lesa regoli i conti privatamente: lo stesso accade in Ride bene... chi ride ultimo, in cui un sacrestano violentato da tre donne straniere viene costretto a ritrattare la denuncia, fingendo di essere stato lui il violentatore].

Per fortuna Carlo Giuffré decide di non accogliere il consiglio dello sciagurato commissario, anche perché un medico gli svela quale sia il “lieve difetto fisico” di Marisa Mell, la quale risulta essere affetta da una lieve forma di ermafroditismo (colpa degli esperimenti atomici, dice il medico...). Giuffré sarebbe anche disposto a sorvolare sull'aggressione di cui è stato vittima, perché nel frattempo si è innamorato della Mell, ma non vuole assolutamente transigere su quel piccolo dettaglio (anzi, quei due piccoli dettagli) che caratterizzano l'oggetto della sua passione. Decide quindi di compiere una rapina nell'ospizio dove suo padre è ricoverato per poter pagare un'operazione che normalizzi i genitali della sua amata.

Il colpo riesce, ma Giuffré viene arrestato mentre la Mell prosegue il suo viaggio verso una clinica svizzera in compagnia della refurtiva. Uscito di prigione grazie a un'amnistia, Giuffré si precipita dalla Mell, convinto che l'operazione abbia avuto l'effetto desiderato... ma subito si accorge con orrore che i suoi genitali sono stati normalizzati nel senso opposto rispetto a quello che lui avrebbe desiderato! Per colmo di ingiuria, la Mell (che ora parla con voce da basso profondo, pur mantenendo le sue forme prorompenti) ha ingravidato la moglie che Giuffré aveva abbandonato per amor suo (Erika Blanc), in un delirio queer inedito e che sconfina nettamente rispetto al repertorio barzellettiero su omosessualità e transessualità tipico del cinema nostrano.

Per non scontentare nessuna componente della sigla LGBTQI, il generoso Cicero versa una cospicua quota anche in ambito di omosessualità maschile: «Ma come? Le donne diventano uomini... e noi uomini che dobbiamo fare?» si domanda ammiccante Carlo Giuffré, prima di cominciare a offrire la propria compagnia a vedovi facoltosi (incontrati tra l'altro in un bar pieno zeppo di presunte lesbiche). E non è tutto! Oltre a due detenuti che fanno la maglia e danzano assieme nella cella di Giuffré, incrociamo anche un avvocato dall'aria topesca interpretato dall'anziano caratterista Antonio Spaccatini, “culattone” del paese anche ne Il piatto piange (1974) di Paolo Nuzzi. Questa figura di checca vecchio stampo dona un tocco di classicità a un filmaccio che, nel suo estremismo qualunquista proto-bagaglinesco, finisce per essere decisamente e involontariamente (?) anticonvenzionale.




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