La ragazza del metrò

4 ottobre 2017

La ragazza del metrò è uno di quei film in cui i personaggi impiegano meno tempo a innamorarsi e disinnamorarsi di quanto gliene occorra per pronunciare lunghissime battute didascaliche degne dei più indigesti cineromanzi. Lui (un Nino D'Angelo già sciupacchiato) è un imbambolato cantautore napoletano, trapiantato a Roma, con la testa piena di melodie mediterranee e di zuccherosi arpeggi di tastiera. Lei (Roberta Olivieri, a sua volta un po' usurata come fidanzatina) è una ragazza ricca che, delusa dai suoi avidi pretendenti, preferisce farsi credere squattrinata.

Lui si invaghisce di lei praticamente a scatola chiusa, scorgendola sul metrò: lei, in lacrime, si sta sorreggendo la testa con un palmo, ma lui ha già stabilito che lei - dietro a quel palmo - dev'essere bellissima. Lui abbozza un pigro tentativo di riscuoterla dal suo dolore, lei si ringalluzzisce. Lei lo mette alla prova, lui persevera, poi passano subito alle riflessioni sul numero di figli che avranno (da 1 a 10) e agli inesauribili tentativi di quantificare quanto si amano.

Poi lui scopre – a causa di un intervento dell'ex-fidanzato debosciato di lei – che la ragazza in realtà naviga nei miliardi e, invece di essere contento, si infuria: «Non abbiamo più niente in comune!» le dice, determinato a lasciarla per sempre. Peccato che gli sceneggiatori (Calabrese e Scandariato) non si siano MAI peritati di dirci cosa avessero in comune. «Statt' bbuon'» sono le ultime, aspre parole che lei riesce a strappargli, prima che lui la abbandoni al suo destino di solitudine. Destino che durerà fino a quando i Cattivi non si coalizzeranno così da ricordare a lui che non può vivere senza di lei e a lei che non può vivere senza di lui.

La cosa migliore de La ragazza del metrò è l'atteggiamento straniato di tutti i personaggi di contorno (specialmente Toni Ucci e Ninetto Davoli), che sembrano messi lì apposta per avvertire D'Angelo e la Olivieri che è inutile che si prendano troppo sul serio... mentre loro, nella miglior tradizione meroliana, continuano ad essere maledettamente assorbiti da una storiella di cui solo loro non conoscono in anticipo lo svolgimento.

Tra i caratteristi figura anche Vinicio Diamanti – ormai ultra-sessantenne e stranamente impacciato senza i suoi abituali travestimenti – a cui viene affidato un ruolo chiave: è il manager del locale dove Nino D'Angelo si esibisce (la prima volta che lo vediamo si sta mangiando con gli occhi il caschetto biondo di Nino). A causa delle minacce di un boss (Rik Battaglia) in combutta con l'ex-fidanzato di lei, Vinicio – ennesimo omosessuale cinematografico incapace di sottrarsi al volere del malavitoso di turno – sarà costretto a malincuore a mandare a spasso il suo pupillo, elargendogli una lauta liquidazione per ricompensarlo dei senili batticuori che gli ha procurato.

«Ma perché? Perché nella vita uno è costretto a fare certe carognate?!» si domanda con enfasi Vinicio, risvegliandosi dal precedente torpore e accaparrandosi il momento più divistico di un film che fa simpatia per le sue ostentate ingenuità (a partire dai testi delle canzoni di Nino, il quale a un certo punto decreta che «cuore / non fai più rima con amore»...).

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