Il ficcanaso

28 novembre 2017

All'inizio degli anni Ottanta Pippo Franco ha avuto una sbandata per il genere cinematografico del giallo, ovviamente ibridato con la commedia: il suo esordio da regista, Una gatta da pelare, è avvenuto infatti sotto questo segno, ma già un anno prima, nel 1980, si era cimentato in tale ambito con Il ficcanaso, diretto dal fin troppo prolifico Bruno Corbucci. Il ficcanaso è leggermente meglio di Una gatta da pelare perché la sceneggiatura (firmata da Raimondo Vianello, Sandro Continenza e dagli stessi Corbucci e Franco) contiene nei limiti del possibile la verbosità degenerativa dell'umorismo self deprecational tipico del lamentoso Pippo, che ne Il ficcanaso non si nega comunque battute come «Se faccio causa ai miei genitori, mi sa che la vinco».

Il film di Bruno Corbucci trapianta in un contesto di comicità pierinesca una rivisitazione puntigliosa degli intrecci dei gialli di Dario Argento, cucendo tutto con la tematica parapsicologica scippata a Profondo rosso. Il risultato è grezzo, aggettivo che si può usare per quasi tutti i film di Corbucci, ma quasi gradevole, aggettivo che invece si può applicare solo a una frazione minoritaria dei suoi lavori.

Inoltre alcune delle battute “ignoranti” che vengono elargite sono veramente di quelle che galvanizzano i detrattori del politically correct. Giusto per fare un esempio, Laura Troschel, all'epoca moglie di Pippo Franco, a un certo punto esclama, punta sul vivo: «Si può essere così timidi? Luciano è l'unico di tutta la fabbrica che non mi ha ancora messo la mano sul sedere!». Allora il galante Pippo ribatte: «Sa, non è per scortesia, è che non si trova mai posto...». Tutto ciò va a riprova del fatto che i cinematografari di Cinecittà consideravano le molestie sessuali come un semplice fatto di educazione: non palpeggiare una donna voleva dire offenderla...

Sul versante dell'omosessualità maschile – da sempre cavallo di battaglia di Corbucci, orfano dell'avanspettacolo – Il ficcanaso non eccede in grevità. Tanto per cominciare incontriamo la futura attivista del Movimento Italiano Transessuale Marcella Di Folco, forse prima dell'intervento di riassegnazione del sesso (che risale allo stesso anno), impegnata nel piccolissimo ruolo di un impettito commesso in un negozio di abiti talari, un personaggio stereotipicamente affettato e algido che fa da pendant con i tanti pretini asessuati che circolavano nelle commedie coeve.

Per il resto troviamo un commissario annoiato interpretato particolarmente bene da Pino Caruso, già esercitato in questo ruolo, che però ha una particolarità. Siccome Pippo Franco è convinto che un serial killer voglia ucciderlo, insiste perché Caruso lo ospiti a casa sua. Qui vengono accolti dall'accigliata madre sicula del commissario (Ermelinda De Felice), la quale, appena vede Franco, comprensibilmente entra subito in allarme e ammonisce il figlio di non strapazzarsi troppo perché da piccolo ha avuto “quella malattia” di cui non viene subito specificata la natura, che però doveva risultare immediatamente chiara al pubblico fidelizzato alle battutacce corbuccesche...

La mattina dopo la smaliziata madre del commissario porta la colazione ai due “colombi” sdraiati uno accanto all'altro (Pippo Franco tra l'altro nel sonno continuava a bofonchiare epiteti amorosi, pensando però a Edwige Fenech!) e, appena Pippo volta le spalle, si rivolge accorata al figlio: «Pinuccio mio, almeno tuo fratello ha scelto la professione di coreografo, ma tu...». Di fronte alle rimostranze del figlio, che la accusa debolmente di aver frainteso, la madre esce di scena affermando lacrimevolmente: «E ricordati che una madre capisce tutto! E perdona tutto...».

Le affermazioni di questa onnisciente signora vengono convalidate solo a un passo dalla fine del film, quando Edwige Fenech, sogno proibito di Franco, si è ricongiunta al marito Luc Merenda. A questo punto Franco e Pino Caruso si allontanano con aria di confidenza, un po' come Humphrey Bogart e Claude Rains nel finale di Casablanca: «Venga Persichetti, andiamo a casa mia che mia madre ha preparato una pasta coi broccoli che è una squisitezza, tanto ormai ai suoi occhi ci siamo compromessi» «Senta, signor commissario, ma quella malattia che lei c'ha avuto da piccolo... non è che per caso erano gli orecchioni?». Figurarsi se gli sceneggiatori potevano lasciar cadere la battuta che la madre aveva porto a metà film... Caruso, dal canto suo, conferma parzialmente: «Sì, sì, ma era una forma leggera!» e lo cinge col braccio. Ma che gli farà Pippo Franco agli uomini(sessuali)!

P.S.: Già ne "Il casinista" di Pingitore, risalente al 1980, Pippo Franco rischiava di diventare il passatempo prediletto di un nutrito gruppo di detenuti confinati nella stessa cella. Durante l'evasione era addirittura costretto a baciare il "primitivo" Salvatore Baccaro...

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