recensione di Marco Valchera
Seat in Shadow
Incomprensibile e noioso debutto dietro la macchina da presa di Henry Coombes, Seat in Shadow è quanto di peggio il cinema omosessuale possa offrire: un piglio da cinema d’essai per raccontare una banale storiella di depressione giovanile causata da problemi di coppia. Che poi perché il protagonista Ben (un monoespressivo Jonathan Leslie) sia tanto giù di corda non è così chiaro, dato che il suo fidanzato si vede per all’incirca cinque minuti in una scena di sesso talmente mal girata da essere comica (così come l’inoffensiva e nonsense orgia finale).
Preoccupata, quindi, per la salute mentale del nipotino, la nonna organizza una seduta di terapia con il suo vecchio amico hippie Albert, che, ormai in pensione, dedica il suo tempo a dipingere e a fare esperimenti tratti da video di Youtube. Seppure con qualche ritrosia iniziale, i due finiscono con l’incontrarsi sempre più frequentemente e, nonostante la differenza di età e di vedute, stringono un’amicizia che, forse, cela anche qualcosa di più.
Il problema è l’involontario tono grottesco con cui ogni scena viene girata: dalla creazione di un dentifricio fatto in casa, alla suddetta orgia, o alle patetiche e ridicole sedute di terapia, che rivelano l’incapacità di sondare l’animo da parte del regista e di recitare bene due righe di copione da parte degli interpreti. Tralasciando, poi, i sogni e le visioni di Albert, dal povero Carl Jung nascosto in una pianta al bodyguard con un gigantesco fallo di gomma che starebbe a significare lo scontro tra desiderio e proibizione. Inguardabile.