recensione diAndrea Meroni
Stangata napoletana
L'ultima fatica da regista di Vittorio Caprioli, Stangata napoletana, non è poi così turpe come la descrivono i pochi critici che si sono accorti della sua esistenza; ciò non toglie che questa miniserie girata nel 1983 con i fondi di RAI 1 – condensata lo stesso anno in un film dalla circolazione molto limitata e mandata in onda dalla rete ammiraglia dopo una lunga ibernazione a mo' di tappabuchi estivo – sia meno pittoresca e vivace di quanto l'ambientazione e la trama potrebbero consentire. Inoltre è impossibile non accorgersi della latitanza quasi completa della rigogliosa inventiva visiva mostrata precedentemente dall'autore/attore in pellicole come Parigi o cara, Scusi, facciamo l'amore? e Splendori e miserie di Madame Royale.
Gli attori perlopiù sembrano rallentati, poco dinamici, compreso – ahinoi – lo stesso Caprioli, il quale completa qui la sua irreversibile “francavalerizzazione”, cominciata in tempi assai remoti; il suo personaggio è quello di Don Alfonso, un tenero manigoldo, specializzato in contraffazione, che fa parte della famiglia allargata del truffaldino protagonista Giugiù (Treat Williams). Nella prima puntata, Don Alfonso appare travestito da vecchia tremolante e “'nzallanuta” (rintronata), con tanto di veletta e boccoli canuti, e si spaccia per la prima moglie di un barone partenopeo deceduto negli Stati Uniti. Quando il trucco – finalizzato a raggirare la vera vedova del barone (Margaret Lee) – viene svelato, Don Alfonso si rivela per quello che è: un'anziana checca con un toupée color topo e il mignolo ribelle che parla di sé al femminile e che svolge la mansione di scenografo e costumista in funzione delle “trastole” (stangate alla napoletana, appunto) ordite dallo scaltro – e anche piuttosto antipatico, per essere il protagonista – Giugiù.
Dodici anni dopo Splendori e miserie di Madame Royale e dell'Alessio interpretato da Ugo Tognazzi, Caprioli torna quindi sulla scena del delitto, ritraendo un altro omosessuale compromesso con la malavita, benché qui il suo Don Alfonso non corra alcun rischio, visto che i “cattivi” (capitanati dal pingue caratterista inglese Geoffrey Copleston) sono dei mollaccioni. Il risultato purtroppo non è altrettanto incisivo: Don Alfonso perde il confronto anche con la memorabile figura di contorno che Caprioli aveva riservato a se stesso in Splendori e miserie, la mitologica Bambola di Pekino. Se non altro, da Stangata napoletana emerge il grande amore dell'attore partenopeo per questo tipo di caratterizzazione checchesca, il che rende anche il suo Don Alfonso degno di indulgenza.