recensione diAndrea Meroni
Matrimonio con vizietto
Considerando che persino il coprotagonista Ugo Tognazzi l'aveva rinnegato già in fase di riprese, avvilito dalla pochezza della sceneggiatura a dodici mani (!), è difficile accostarsi con benevolenza e senza sospetti a Matrimonio con vizietto, terzo e ultimo capitolo della saga di Renato e Albin.
Oggettivamente il film, la cui regia è passata all'esperto di action movies Georges Lautner, comincia così male che peggio non si potrebbe: la zia ricca di Albin, proprietaria di mezza Scozia, muore nominando la vedette della Cage aux Folles erede universale del suo patrimonio, a patto che entro diciotto mesi il nipote si sposi e scodelli un figlio. Un pretesto sufficiente al massimo per uno dei cortometraggi di Stanlio & Ollio (uno dei modelli comici della coppia Renato-Albin, per cinica ammissione del produttore Marcello Danon), ma troppo labile per un lungometraggio con un minimo di ambizioni.
Nel primo terzo del film non c'è assolutamente niente che distragga dalla banalità di questo spunto di partenza. La gag in cui Albin viene perquisito all'aeroporto (ed esibisce tutto il proprio campionario di ciprie e fondotinta come una commessa di Limoni) fa quasi arrabbiare per quanto è scontata; sapendo del disamore che Tognazzi provava per questo sequel, viene quasi il sospetto che il suo Renato, mentre assiste scorato alla pantomima di Albin dall'altra parte del metal detector, si stia augurando che l'aereo su cui il compagno sta per viaggiare si inabissi nel canale della Manica.
E, per quanto affetto si possa provare per un personaggio leggendario come Albin, a furia di sentirlo blaterare in continuazione da solo come una casalinga alienata, si rischia seriamente di volerlo vedere – se non morto – perlomeno naufrago sull'Isola di Guernsey.
Ciononostante, quando Albin torna a Saint-Tropez ed è costretto a svelare a Renato le condizioni capestro dell'eredità, il film comincia a risollevarsi, con Albin che difende con le unghie e con i denti la propria integrità di omosessuale. e Renato che è pronto a qualsiasi sotterfugio pur di indurlo a “meritarsi” l'eredità, volendo salvare la Cage aux Folles dal fallimento (unico aspetto verosimile di tutta la vicenda, dato che il locale continua a proporre numeri antiquati e fuori tempo massimo quanto la diva Zazà/Albin). Vale la pena di ricordare che il “vizietto” – così come lo si intendeva nel primo film – consisteva nei rari pruriti eterosessuali di Renato, il quale in questo caso si vanta (comprensibilmente rimbeccato da Albin per la poca finezza) che per lui non sarebbe un problema ingravidare una donna, come già accaduto in una notte di bagordi esattamente ventisette anni prima...
Nella parte centrale di Matrimonio con vizietto, la più godibile, Renato finge appunto di essere diventato esclusivamente eterosessuale a causa di uno choc, il che spinge Albin a invocare una “terapia riparativa” al contrario, dichiarandosi disposto a finanziare (con l'eredità) una costosissima operazione a New York (nel Greenwich Village, plausibilmente) per “recuperare” il compagno. Il divertimento – non eccelso – di questa unità narrativa fa comunque riflettere, perché risulta evidente che gli sceneggiatori, non sapendo più come sfruttare i personaggi nella loro quotidianità (elemento vincente del primo film), sentano la necessità di ricorrere a duplici, triplici, quadrupli salti mortali. Al contrario, tutto quello che è legato all'immaginario del primoVizietto diventa una noiosa pratica da evadere, come nel caso delle apparizioni del povero, mitico cameriere Jacob (Benny Luke, agghindato come la zia di Grace Jones) e dei suicidi sempre annunciati e sempre rimandati sui binari del treno.
È simpatica anche la sequenza in cui Renato accompagna Albin in un'agenzia matrimoniale (alla domanda della consulente Stéphane Audran su chi sia il suo “tipo ideale” tra le star di Hollywood, Albin risponde con vigore e trasporto «Robert Redford!»). Poco a poco però il film torna a spegnersi, stroncato una volta per tutte dalle melensaggini televisive che coinvolgono il cugino eterosessuale di Albin (a sua volta in lizza per l'eredità) e la promessa sposa dello stesso Albin, una ragazza “traviata” incinta (e qui l'équipe degli autori, ancora a corto di ispirazione, va a farsi 4 passi tra le nuvole, attingendo all'omonimo film di Blasetti del 1942).
Ripristinando tacitamente la gabbia dorata che separa gli omosessuali dagli eterosessuali, il finale risolve precipitosamente ogni problema: il cugino di Albin sposa la ragazza incinta, promettendo la metà dei dieci milioni di sterline della zia scozzese ai due protagonisti, i quali, nel tripudio generale, escono dal municipio a braccetto, con Albin che – per celebrare il mantenimento del proprio status di gay “gold star” – si è drappeggiato con un abito da sposa che sembra più uno dei sudari di Valentina Cortese.
Dopo trent'anni complessivi di unione e sette di sodalizio cinematografico (un critico sagace ha parlato, a proposito di Matrimonio con vizietto, di “crisi del settimo anno”), Renato e Albin partono per una luna di miele... fortunatamente (purtroppo) senza ritorno, anche dato il solenne tonfo del film al botteghino: è 128° nella classifica dei film più visti della stagione 1985-86, laddove Il vizietto era stato secondo della stagione 1978-79 e il già mediocre Il vizietto II undicesimo tra il 1980 e il 1981.
Insomma, un'avvilente rottamazione per la coppia di “invertiti” più amata del XX secolo, che perlomeno lascia in eredità – col senno (social) di poi – una cospicua quantità di potenziali meme, complici i costumi sempre fantasiosi di Piero Tosi e la mitica mimica di Michel Serrault.