Vedo nudo

28 febbraio 2019

Vedo nudo è il primo capitolo della trilogia sessuocentrica diretta da Dino Risi e può contare sulla precisione comica di Nino Manfredi e su una art direction altamente pop che riempie lo sguardo anche quando il cervello si spegne, come nel caso dell'episodio omonimo Vedo nudo, il più tirato per le lunghe. Dopo cinquant'anni il divertimento appare del tutto innocente, anche se è curioso osservare come l'ultimo capitolo della trilogia, Sesso e volentieri, sarà infinitamente più vestito di questo suo predecessore.

Persino l'episodio della gallina “provocante”, stuprata da un villico allupato, appare piuttosto candido, anche considerando che – tra i sette racconti proposti dal film – è forse quello coi riferimenti più precisi all'attualità, dal momento che durante l'estate del 1968 aveva avuto luogo, nei pressi di Bolzano, un processo (ricordato anche nell'aureo L'occhio impuro di Gianni Massaro) in cui un contadino era stato chiamato a rispondere dell'accusa di violenza carnale ai danni di Gina, una giumenta di otto anni, la quale – traumatizzata dall'innaturale congiungimento – non era stata più produttiva come in precedenza.

Alla luce di ciò, la palma dell'episodio più gratuito appartiene di diritto allo scadente Motrice mia, mentre quella del più memorabile non può che andare – anche per ammissione dei critici più parrucconi dell'epoca, affascinati dai suoi toni gozzaniani – a Ornella. Nino Manfredi, per definizione il più misurato tra i colonnelli della commedia all'italiana, vi interpreta Ercole, un impiegato delle poste mite e riservato. Anzi, quasi sfuggente, nell'ottica delle sue colleghe e delle portinaie, che – attratte dai suoi modi discreti e per niente machisti – tentano vanamente di aprire uno spiraglio sulla sua misteriosa quotidianità.

La realtà su Ercole, ermeticamente sigillata nel suo piccolo appartamento arredato con gusto antico, è che in cuor suo è donna. Manfredi non si femminilizza banalmente per questa interpretazione, ma si ingentilisce nei modi con assoluta naturalezza: ricama con scrupolo, suona Mozart e Chopin e vezzeggia la gatta Fabiola, unica testimone del suo ciabattare casalingo in vestaglia.

Sussulta inoltre – ma con moderazione, e con un filo di disillusione preventiva, abituat* com'è a non conoscere l'amore – leggendo le missive di un vedovo torinese, il ragionier Carlo Alberto Ribaudo, conosciuto tramite la posta del cuore. Questi si è invaghito del suo alter ego letterario (o meglio, di colei che Ercole sente di essere), vale a dire la Signorina Ornella.

Un giorno il Ragionier Ribaudo (Enrico Maria Salerno, bravissimo pure lui) fa una capatina a Roma, e a Ercole non resta che fingersi il fratello di Ornella e inventarsi un motivo plausibile per l'assenza di quest'ultima. Opta quindi per un classico: Ornella è andata ad assistere una zia moribonda. Il Ragioniere si confida con Ercole a proposito del suo desiderio di accasarsi con la sorella, dal momento che, tra le cinquanta lettere che gli sono giunte dopo la sua inserzione sulla posta del cuore, l'unica lettera “squisitamente femminile” era proprio quella di Ornella, la quale – stando alle sue parole – gli piacerebbe anche se fosse zoppa.

Apprendiamo che per il Ragionier Ribaudo – ometto un po' grigio, con pochi capelli incollati sulla testa, ma tanto perbene – la relazione ideale è più un fatto di accudimento e solidarietà reciproca, di rituali familiari; il sesso gli interessa poco o niente, tanto che la defunta consorte è da lui giudicata “troppo materiale” perché gli richiedeva prestazioni almeno due o tre volte al mese (Ercole/Ornella accoglie l'informazione con un certo sconforto, segno che non disdegna il contatto carnale).

Dato quindi il suo ridotto bisogno sessuale, si può dire che la giornata che il Ribaudo passa con Ercole – il quale lo accudisce con zitellesca sollecitudine – non è affatto dissimile dalla vita coniugale al fianco di Ornella che egli già pregusta: una partita a canasta, un infuso di tiglio, una pasta zuccherata e un caffè salato, seguiti da una buona razione di whisky.

Quando Ercole e Ribaudo si coricano, su lettini paralleli, dopo questo cameratesco idillio durato una mezza giornata, il Ragioniere – già tra le braccia di Morfeo – sussurra «Buonanotte, Ornella». Questo “colpo di scena”, che chiude l'episodio (il secondo più lungo di tutto il film), può lasciare a spazio a varie interpretazioni su ciò che accadrà l'indomani: forse l'incorporeo ragioniere acconsentirà a vivere con Ercole/Ornella perché tanto ciò che gli interessa è la pace domestica? Oppure – come sembra suggerire lo sguardo turbato e incerto di Manfredi – l'incanto si romperà, perché Ornella, agli occhi del mondo, non esiste?

Chi scrive propende – forse ingenuamente – per l'ipotesi che il Ribaudo farà le radici nel modesto appartamento di Ercole, lasciando un'impronta indelebile in quel lettuccio singolo, ansioso com'è di cominciare una noiosa e poetica routine di coppia.

Qualsiasi sia la risposta nella mente degli autori del film, questo Ornella – della cui sceneggiatura Manfredi si è attribuito la paternità, assieme a Jaja Fiastri – è un momento notevolmente alto nella storia della commedia all'italiana, senza concessioni alla banalità, fatta eccezione per una piccola gag (comunque gradevole), l'unica che “spiega” – in modo faceto ed elementare – la condizione di Ercole/Ornella: il Ribaudo vede il ritratto della madre baffuta di Ercole e lo scambia per suo padre, ma Ercole lo corregge e ribatte che suo padre, al contrario, era glabro come una donna. Insomma, una parentesi semplicistica per un episodio che non lo è affatto, e che capovolge – almeno temporaneamente – le sorti di un film altrimenti un po' superficiale... anzi, epidermico.

PS: Un'ulteriore nota di merito va tributata all'emotivo e felpato "Tema di Ornella", scritto da Armando Trovajoli, che contribuisce a creare una forte empatia col personaggio (proto-)transgender.

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