Robin Maugham, Pari d’Inghilterra e scrittore come l’assai più celebre zio William Somerset, di quest’ultimo fu congiunto affezionato e devoto, come attesta questo affettuoso e gustoso libro che gli dedicò: affettuoso e gustoso, appunto, ma non lusinghiero, e tantomeno agiografico, dal momento che il ritratto dell’illustre zio, sebbene privo d’acrimonia, non ne nasconde affatto i tratti meno simpatici e degni d’elogio. Robin, che al contrario di William non ebbe vita lunghissima (morì nel 1981, a sessantacinque anni d’età), col suo famoso e ricchissimo parente aveva parecchi tratti comuni: anzitutto l’esercizio delle amene lettere, appunto, e l’omosessualità; ma non pare, almeno da qui, che ne condividesse anche il carattere aspro e mordace, perché i ricordi, quand’anche spiacevoli o agrodolci, non sembrano amareggiati dal risentimento; ciò a meno che il lettore particolarmente malevolo e sospettoso non immagini un Robin così scaltro da travestire costantemente, senza falli e senza strappi, con un cordiale velo d’equanimità la sardonica soddisfazione del dire honestamente villania, come scriverebbe il Boccaccio, di mettere cioè alla berlina il parente dando le viste di ricordarlo con amore. Il Maugham che si staglia da queste pagine in effetti è tutt’altro che simpatico: anzi, quasi sempre vi ha l’aria del vegliardo saccente, scorbutico, incattivito e odioso. Vero è che la balbuzie gl’impedì per tutta la vita quell’esercizio della conversazione mondana che probabilmente gli sarebbe molto piaciuto praticare, condannandolo così alla consuetudine, semmai, con la battuta pungente, con l’osservazione caustica, con l’epigramma feroce; ma la durezza di modi ce l’aveva nel sangue, ed era un carattere di famiglia: leggendo parecchie pagine di questo libro si ha l’impressione che i Maugham, o almeno parecchi di loro, fossero gente astiosa, collerica e linguacciuta, che godeva nell’umiliare con alterigia e nello scorticare verbalmente il prossimo, soprattutto se vicino per rapporti di famiglia e d’amicizia. Il fatto che Robin Maugham ne scriva con tale sostanziale candore, senza serbare apparente acredine verso uno zio non sempre, viceversa, empatico e gentile nei suoi riguardi, a me dà l’idea che, lungi dall’assomigliarli, lo vedesse a tal segno come una bestia esotica, dal rendergli piacevole rammentarne le malignità e scriverne invece di dolersene per come, a volte, l’avevano ferito in maniera gratuita e priva di quella finezza che suol rendere meno moleste certe frecciate aguzze ma sottili e quasi cesellate con arte; il wit del vecchio scrittore non lavorava mai di fioretto: colpiva di sciabola, o meglio di daga. Dietro l’aneddotica emerge ad ogni modo un ritratto assai triste d’un uomo solo, egocentrico, attaccato ferocemente alla vita ma incapace, spesso, di goderne appieno le piccole gioie. E Maugham era un uomo solo per sua indole, non perché privo di gente che gli volesse bene: trattava malissimo, infatti, anche le persone che lo amavano, a cominciare dai suoi due compagni e dalla moglie; e trattava male gli amici, anche se alcuni, come Noël Coward, non ne parevano più di tanto attristati, e si lasciavano passare addosso gli strali con allenata noncuranza. Qualche volta però la durezza si scioglieva un po’, e ne nascevano battute felici. “Mi dicono” per esempio una volta osservò “che dovrei leggere più scrittori americani moderni. Ma il guaio è che non riesco assolutamente a capire la loro lingua”. L’impressione finale mi sembra quella che non di rado capita nel considerare la vita privata degli artisti celebri: le loro opere posseggono molto più fascino umano che non le loro persone.