Prima di scoprire per puro caso questo libro non avevo idea che Noël Coward avesse affiancato all’attività di attore, commediografo e autore di canzoni e operette quella di romanziere; ma in effetti questo dovrebbe essere il suo unico lavoro di narrativa: ed è un vero peccato, perché vi esibisce un talento invidiabile. Anzi, diciamo pure che se gran parte degli scrittori che pubblicano racconti, romanzi, storie e storielle di vario tipo avessero la quarta parte del talento del vecchio Sir Noël non solo si potrebbero chiamare fortunati, ma finalmente pubblicherebbero per giunta libri piacevoli da leggere; ché gran parte della narrativa in voga oggi è terribilmente penitenziale. In altri tempi, confessori austeri l’avrebbero assegnata in buone dosi ai peccatori pentiti: ma per peccati gravi, meritevoli di rigoroso castigo. Va detto che anche nella narrativa Coward si mostra uomo di teatro: i dialoghi serbano intatti l’agilità danzereccia e mercuriale, il brio e l’esprit di scene da commedia; ma, lungi dal risolvere tutto il racconto negli scambî di battute, come fecero con successo Ivy Compton Burnett e, con minor abilità, Ronald Firbank, il Nostro dà prova d’un’allegra e disinvolta freschezza nel raccontare: fra descrizioni di paesaggi, luoghi, vestiti, situazioni e persone, le vicende si dipanano frizzanti e spigliate. La trama è un fuoco d’artificio di trovate che danno modo all’autore di occuparsi di tutta una serie di temi – dalla vita nelle colonie britanniche al rapporto fra colonizzatori e indigeni, dalle figurine e figurette della società di provincia alle relazioni coniugali e adulterine, dalle coppie gay (le quali ancora non si chiamavano così ed erano illegali, ma esistevano) alle tremende damazze snob di paese; ovviamente non s’incontra neppure l’ombra di political correctness: tutti vivono di rendita (o al massimo fingono di lavorare), fumano come turchi, mangiano roba pesante e fin dal mattino, da buoni inglesi old fashioned, bevono in modo smodato Horse’s Necks e Martini cocktail – ma secchissimi questi ultimi, praticamente gin puro, come pare che a Villa La Pietra li amasse offrire la mamma di Sir Harold Acton. E fioccano leggiadri e cattivissimi paradossi, cortesi perfidie, complimenti caustici, malignità soavi, faccende serie trattate con la fatuità più vaporosa, eteree inezie affrontate col piglio più impegnato e professionale; un’arte della conversazione e della maldicenza della più consumata e felice civiltà, che zampillano e sfarfallano giorno dopo giorno tra giardini tropicali, verande ombrose, riunioni mondane, ricevimenti a pioggia, vestiti di splendido taglio. Tutto very british, tutto bellissimo. Se proprio al termine della lettura, presi da una crisi di masochismo, vogliamo farci venire pensieri tristi, basta confrontare questo romanzo con quelli coevi di genere sollazzevole che si pubblicavano in Italia; ma è meglio di no, bando ai ricordi di cattiva civiltà letteraria: ché dopotutto, come insegna Liala, di ricordi si muore.