recensione diAndrea Meroni
Il poliziotto è marcio
Il poliziotto è marcio è uno di quei film che, pur non rientrando nel novero dei capolavori di Fernando Di Leo, dimostrano la superiorità del cineasta pugliese nell’ambito del noir italiano e del poliziottesco. Superiorità che si vede tanto nelle piccolezze (come nell’enfasi posta sulle marche delle varie Acqua Pejo, Fernet Branca e J&B, che in questo caso trascende la pubblicità occulta per divenire Pop Art pura e semplice) quanto negli elementi macroscopici. A partire dal titolo, che rappresenta il vertice dell’efficacia nella celebre scala di valutazione introdotta dal regista Enzo G. Castellari, e che va dal liquidatorio «E sticazzi?» all’elogiativo «Me’ cojoni!». All’icasticità del nome corrisponde il montaggio rabbioso e audace di Amedeo Giomini.
Riguardando Il poliziotto è marcio, però, può accadere che l’impressione di potenza lasciata da una prima visione si stemperi di fronte all’evidenza che anche i momenti più suggestivi, come il violentissimo incipit, sono né più né meno che gli aggiornamenti – forse più grintosi, ma meno incisivi – di situazioni già viste nei primi noir di Di Leo, quelli giustamente canonizzati come cult. Su tutte, l’introduzione di Milano calibro 9. Al di là dell’adrenalina e dell’insolita cura nella sceneggiatura (anche se all’escalation di violenza si arriva per motivi tutto sommato futili), non si può dire in coscienza che Il poliziotto è marcio sia poi così indispensabile.
In questa sede, comunque, ha il suo bel peso la presenza del “travestito” omicida Gian Maria (Gino Milli). Questi è poco simpaticamente soprannominato «Gianni davanti e Maria di dietro» dal poliziotto corrotto che dà il titolo al film, il Commissario Malacarne (Luc Merenda), cui Gian Maria rivolge al contrario affettuosi apprezzamenti: «Bell’uomo» è l’appellativo con cui gli si rivolge, con tono provocante, dall’inizio fino alla (propria) fine.
Bello, ricciuto e amante delle vestaglie cinesi ricamate, Gian Maria è uno degli sgherri del cattivo principale, Pascal, e – a quanto pare – è ben integrato nella sua ghenga… forse perché, come suggerisce il Commissario (l’unico a disprezzarlo palesemente), soddisfa le esigenze di tutti gli altri componenti. Di uno sicuramente: il pallidissimo e segaligno henchmen interpretato dalla futura leader del Movimento Italiano Transessuale, Marcella Di Folco, con cui Gian Maria sta ballando goffamente nel momento in cui irrompe il Commissario, giustamente imbufalito perché Gian Maria ha ucciso suo padre (Salvo Randone) ricorrendo a un camuffamento da bionda impellicciata.
Segue una lotta selvaggia, in cui l’agile assassino si batte con un coltello a serramanico contro colui che fino a poco prima era il suo oscuro oggetto del desiderio. A prevalere è – manco a dirlo – il Commissario, che fracassa il cranio di Gian Maria contro una parete, per poi spezzargli l’osso del collo usando le proprie gambe a mo’ cavatappi (nient’altro?). Un epilogo brutale per uno dei molteplici travestiti violenti che si trovano nei poliziotteschi di questo periodo, da Una Magnum Special per Tony Saitta a Quel pomeriggio maledetto, forse sulla scia dell’americano Freebie and the Bean (1974, Richard Rush), in italiano Una strana coppia di sbirri, in cui un malvagio efebo en travesti viene falcidiato con orribile compiacimento. Già ne I ragazzi del massacro (1969), comunque, Di Leo aveva affidato a un travestito la parte del cattivo, senza che tale presenza fosse prevista dal romanzo ispiratore di Giorgio Scerbanenco. Ci troviamo di fronte quindi a una peculiare ossessione.
Tornando invece alla Di Folco, Di Leo le affida quella che forse è l’azione più efferata di tutto il film, che pure abbonda in gambizzazioni e pestaggi: il soffocamento del gattino appartenente a un pensionato napoletano dalla lingua troppo lunga (un Vittorio Caprioli godibilmente sopra le righe, come da abitudine). Del resto, chi l’ha detto che le persone LGBT sono povere creaturine docili e indifese?