Myra Breckinridge

1 maggio 2006

Sull'onda del suo successo, il romanzo di Gore Vidal Myra Breckinridge viene subito adattato per il grande schermo, con il tentativo di riciclare un immaginario camp/swinging (il regista è inglese) che non discrimina tra le sue fonti, mettendo Lester fianco a fianco con Fellini e muovendosi tra kitsch e trash, un po' Waters e un po' underground intellettuale.


Ne esce un gran caos: Sight and Sound a suo tempo definì il film, con felice sintesi, una sorta di "manicomio di Glamourville". Ma un manicomio meno folle di quel che si vorrebbe, capace di dilapidare l'ironia di Vidal senza riuscire a far sua l'intelligenza con cui attraversava l'immaginario cinematografico hollywoodiano.

È proprio su questo piano che si registra la scelta più infelice, quella cioè di tradurre i continui rimandi di Myra al passato di Hollywood con inserti di spezzoni di "vecchi" film. L'operazione non funziona soprattutto perché slega le citazioni dalle elucubrazioni del personaggio, rendendole asettiche e cerebrali, gratuite e impersonali, frutto di una ricerca d'archivio anziché di un'adesione al mondo da cui provengono, senza contare che spesso rallentano il ritmo. Questi inserti, come scrisse giustamente il critico di Variety con similitudine adeguata al soggetto del film, appaiono alla fine artificiosi come delle iniezioni di silicone. Forse pesa su questa impressione di freddezza la giovane età del regista, che anagraficamente non ha avuto la possibilità di crescere con quel cinema e di assorbirlo come parte della sua formazione. Comunque sia, rimane il fatto che le numerose citazioni inserite nel film non hanno più la devozione del cultore, mista alla passione del fan delirante, di Myron/Myra, e nemmeno un po' dello snobismo iconoclasta di Vidal.

Si perde così per strada l'anello fondamentale che saldava queste due dimensioni nel romanzo, cioè il lavoro di Parker Tyler. Il regista banalizza l'immaginario di Myra, privando per altro Myron di qualsiasi personalità: ma era proprio in quella personalità che risiedeva il fondamento dell'operazione di Vidal e dei suoi riferimenti (polemici e discutibili, ma gustosi) agli studi di Tyler.

Ci si accorge così di quanto questo romanzo tutto incentrato sul cinema fosse difficile, forse impossibile, da trasporre cinematograficamente.


L'imperizia della regia spreca anche le risorse del cast, non privo di curiosità (tra cui un quasi esordiente Tom Selleck), nel quale spicca soprattutto la rediviva Mae West, icona degli anni '30 e '40 che si era ritirata dalla professione da ormai oltre vent'anni. Mae West invade da par suo lo spazio che le è concesso scrivendosi da sola battute in tono sia con i suoi personaggi di sempre, sia con il personaggio dell'agente pensato da Vidal. Peccato solo che sia stata abbandonata la sua vena masochista, ma del resto tutta la dimensione erotica del romanzo viene drasticamente ridimensionata e il film osa ben poco da questo punto di vista, e avrebbe potuto senza difficoltà ardire di più, visto che viene prodotto in anni in cui le sfide alla censura erano ormai pane quotidiano.


Mae West e John Huston (pacione ma azzeccato nel ruolo del proprietario della scuola) non possono da soli mantenere vivo l'interesse per un film che si fa presto noioso e ripetitivo, anche per l'infelice scelta di Raquel Welch, che da sola non riesce a ridare spessore al personaggio di Myra, già impoverito dalla regia, e che per altro passò buona parte del suo tempo sul set ad accapigliarsi con Mae West, come le cronache del tempo non mancarono di sottolineare.


Al film nuoce però soprattutto una gran confusione narrativa: ad esempio non si può dire brillante l'idea di conservare Myron come un doppio in carne e ossa (sebbene immaginario) di Myra, che rende poco perspicace soprattutto il finale di un film che oggi possono desiderare di vedere giusto i cultori del camp.

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