recensione diDaniele Cenci
Il tango delle fate
Gennaro N. ("N come nisciuno"), femminiella di mezza età, vive in un basso/presepe, "umile schiava e dispotica regina" del giovane Luca, il più conturbante dei suoi clienti.
Caminito (questo il suo soprannome, ispirato a un tango: "il sentiero che tutte le sere percorrevo felice cantando il mio amore"), danzatrice e puttana, maschio/femmina, umile devota della Madonna ("fata delle fate"), asseconda con indecifrabile ieraticità una sua torrida via crucis, cancellata dalle ceneri tristi dell'oblio.
Tra sprazzi di lucida rabbia e brume di mistico delirio, che la porta prima ad identificarsi con Bernadette, la contadinella di Lourdes, e poi ad evirarsi, il/la protagonista, "splendida fenice... sirena magicamente partorita dalle onde fecondate dal fuoco del Vesuvio", calca le scene di un onirico teatro quotidiano dove la favolosa Rosalinda di Scende giù per Toledo di Patroni Griffi trascolora nell'amaro disincanto delle trans umiliate e offese dal destino nel cinema di Almodóvar, e si mescola nei manieristici chiaroscuri del Genet di Notre-Dame-des-Fleurs: per approdare infine alle malinconiche atmosfere dei Rasoi di Moscato/Martone, o alle dolenti Samantha e Cerasella di Ciro Cascina.
A partire dal monologo Caminito (Una vita nel regno delle fate) presentato a Todi nel luglio 2005, il drammaturgo romano ricrea in un corrusco impasto di strazio e nostalgia l'umana parabola di una creatura "più leggera della spuma, più soave della brezza, più fragile di un raggio di luna".