recensione diDaniele Cenci
Baciami ancora, forestiero
Galeotta una canzone di Mina, due liceali di guardia ad un murale rivoluzionario si assopiscono uno nelle braccia dell'altro. E poi le lettere "piumate": ad un giovane rocker e al suo "seme incendiario"; ad Angelo che sussurra "un filo ricamato di baci" all'orecchio del poeta, "trapezista ubriaco" e senza rete perché il ragazzo è il suo mare; all'Amato, "unica stella nera" in un firmamento di luci.
La denuncia della cocaina, "dama di ghiaccio... cinghia bianca che muove gli ingranaggi del potere" e strozza i corpi del Terzo Mondo; il ricordo del massacro nella discoteca gay Divine (Valparaíso, 1993); la varia umanità che in un parco abbandona la pelle secca delle uniformi e, nell'umida oscurità, "tribalizza il desiderio" per rigenerare il contatto, mentre una "lingua da lucertola" succhia i coglioni alla menta di un quindicenne.
Pedro, "supernova del trasformismo" e mariposa nomade sopravvissuta al terrore della dittatura cilena e ai rigurgiti omofobici dei giorni nostri (la magistrata Bulnes, cariatide fascista), ci intenerisce con un "errante sillabario ancestrale" ed una smorfia burlona, carica di remote cicatrici memoriali. Sfarfalla nostalgico "nel caleidoscopio degli specchi", e intona roco un "pentagramma di abissale solitudine".