recensione diFrancesca Palazzi Arduini
Viola di mare, ovvero la solitudine della lesbica italiana.
Un paesaggio di pietra di tufo, spettrale, ornato qua e là da erbe
di campo che la protagonista del film di Donatella Maiorca “Viola di
mare” raccoglie per la famiglia sin da bambina.
La bambina del film è lei, Angela, una donna lesbica realmente vissuta
lì.
Gianna Nannini, che ha curato la colonna sonora del film, racconta di averne
visitato la lapide al cimitero di Favignana, l’isola siciliana dove è stato
girato il film e dove Angela ha vissuto, dal 1868 al 1968.
Un paesaggio nel quale si aggirano donne con lunghi abiti e drappi neri. Visioni
che, corredate dagli ornamenti della cultura patriarcale e dall’angoscia
che sempre ci procurano, sembrerebbero ironicamente e terribilmente l’Afghanistan.
Invece c’è uno splendido mare ventoso tutto intorno. Ed una buona
notizia: le lesbiche italiane sono finalmente giunte all’ottocento nella
loro narrazione filmica. Ancora le dolci metà muoiono ma in fondo è biografia,
ed è un bel passo avanti. Certo, ancora vince il Festival del cinema
di Roma Brotherhood, un film che narra un amore di oggi tra due giovani uomini
nazi, mentre la storia delle lesbiche resta incagliata al passato, ma è sempre
una vittoria riuscire a portare in questo cinema e in questa società misogina
questo tema raccontato da donne.
Siamo arrivate fin qui, finalmente, grazie ad un sapiente lavoro di lobby:
la regista, che attendeva da dieci anni di fare un altro film (e il primo si
chiamava Viola) e nel frattempo ha lavorato per la tv, la prima sceneggiatrice,
Pina Mandolfo, che ha proposto la storia, le donne, tra le quali spicca l’assertiva
Maria Grazia Cucinotta, che sono riuscite a produrre e distribuire la pellicola
(100 copie) e a trovare nella Medusa distribuzioni la rivincita del “mercato” e
del privato sul pubblico (“ho avuto tante porte sbattute in faccia”-
Cucinotta). Il lesbismo buttato dalla porta dei “grandi” finanziamenti
culturali pubblici rientra dalla finestra del profitto.
Personaggi lesbici, protagonisti e diretti da una regista, non ce ne sono nella
storia del cinema italiano, fatta eccezione per Benzina (2001). Il film prende
quindi anche il sapore di un debutto.
E nell’analizzare le scelte di un debutto si scoprono le volontà,
le sensibilità, le difficoltà del passaggio della cultura lesbica
italiana da cultura di nicchia a espressione mediatica.
Innanzitutto quello che colpisce me è la bellezza. La bellezza delle
due protagoniste, scelte come se nella rilettura di una storia vera si volesse
infondere fin dall’inizio un giudizio: la protagonista deve essere bella,
perché incarna un ideale che vuole risaltare come giusto, quasi sacro,
quello della giustezza, della quasi sacralità dell’amore di una
donna per un’altra donna. Visione romantica? Riduzione del lesbismo alla
sola emozione totale, dimenticando quelle parziali, e la realtà tutta
prosaica e, perché no, felice, che si possono avere relazioni con le
altre anche solo erotiche? Scelta commerciale che preferisce i bei volti, le
icone, a quelli più realistici?
Che le fotomodelle di Lword abbiano insegnato che dei bei volti e dei bei corpi
fanno più audience e non guastano mai è sicuro. Ma pensiamo a
Valeria Solarino (sforziamoci però di non pensarci troppo): è di
una bellezza che ricorda il significato dell’espressione “bella
come il sole”; con lineamenti che impressionano la retina. A lei tocca
far rivivere Angela, la lesbica innamorata da sempre della sua amica del cuore,
che la aspetta al suo ritorno, dopo l’adolescenza, sull’isola,
e la chiede in sposa come se l’avesse deciso da sempre. ... e ci credo,
chi non si butterebbe a pesce su di un amore che sembra l’unico possibile
da avere su quelle pietre?
La scelta nel cast incastona (scusate), volendo e non, un giudizio di valore.
Le lesbiche sono belle. Lo è anche l’amata di Angela, Sara, impersonata
da una Isabella Ragonese che sprizza sensualità da tutti i pori ed all’improvviso
non è più la collega che tutte avremmo voluto avere di “Tutta
la vita davanti”, con la sua dolcezza, i suoi silenzi, ma si trasforma
in una donna travolta dal desiderio e che affronta la sua educazione sentimentale
con una spontaneità disarmante.
E’ bella anche la Baronessa (Lucrezia Lante della Rovere) che, bontà sua, è l’unica
voce “dal continente” ed esprime sia la decadenza (non per niente è nobile...)
della sua bisessualità un po’ torbida che il desiderio sessuale
tout court, quello “diabolico” che non interessa un copione tutto
incentrato sull’amore unico.
Le lesbiche sono belle insomma. Uno a zero, e adesso vediamo come il golem
Povia o chi per lui risponderanno a Sanremo alla provocatoria affermazione.
Spicca ancor più però, così, la solitudine della lesbica
italiana, nella sua penisola di preti e di coppole, spicca così tanto
in questa storia emblematica tanto da consigliare un antiacidità in
saccoccia, perché mentre la musica della Nannini schitarra veemente
vediamo scorrere davanti ai nostri occhi tutto il repertorio di quello che
Pina Mandolfo, sapiente ispiratrice, ha definito alla conferenza stampa del
film “il patto etero-normativo patriarcale basato sulla divisione delle
donne e della complicità femminile”.
Al Festival del cinema di Roma, ed alla conferenza stampa del 16 ottobre, abbiamo
assistito poi ad altri sdoganamenti che era tempo di fare.
Quello delle sopracciglia autentiche: vedere le portentose sopracciglia cucinottiane
assieme a quelle italo-venezuelane della Solarino ci conferma finalmente ciò che
volevamo, in un mondo di iper de-sopraccigliate e de-private.
Quello delle mamme italiche, con la compiaciuta dichiarazione in conferenza
di Giselda Colodi, la mamma di Angela nel film, una madre che escogita un modo
per permettere alla figlia di vivere liberamente vestendosi da uomo... e pensare
di quanto hanno rotto le scatole a noi figlie in questi decenni perché ci
vestivamo “da maschio”!
Quello dell’uso del ricatto a fin di bene: non sto parlando del molestatore
de L’Avvenire recentemente in cronaca italiana ma del parroco dell’isola,
che nella storia viene messo alle strette, (per convincerlo a ribattezzare
Angela in Angelo) da madre e zia, una terribile Cucinotta sicula che apre vecchi
armadi parrocchiali. Deliziosa la scena “mafiosa” dell’arrivo
delle due donne dal prete.
Quello dei set tutti al femminile, per girare scene di sesso estremamente belle
(del resto se è vero che, come ha detto la Mandolfo, si aspettava questa
storia da 30 anni c’è stato tempo per disegnarle!), set che, come
ha suggerito la Ragonese in conferenza stampa, ha creato l’agio e la
libertà di girare e rispetto a cui confessa diabolicamente di aver
trovato più facile girare sesso omo che etero, “per il quale,
dice, c’è sempre un po’ più di timore”. I sorrisi
sotto i baffi (fortunatamente non presenti e non sdoganati) si sprecano, i
giornalisti proprio questo tema aspettavano, la “ parte difficile” della
conferenza stampa scivola via.
Ed, a proposito di erotismo, un altro sdoganamento è avvenuto sul Red
Carpet del festival: con il bacio finto tra Solarino e Ragonese che prova che “italians
do it better” rispetto a Madonna.
Per finire: non sappiamo se il film “cambierà il senso comune”,
aspettiamo una lobby anche in Parlamento, noto luogo di discussioni da bar.
Nel frattempo, lesbiche italiane, chiediamoci se mai avremo la soddisfazione
di capire da dove sgorga la poesia della canzone di Gianna Nannini che fa da
finale al film, “Sogno”, un testo realmente ispirato ma nel quale,
come al solito, il soggetto è maschile “sogno la mia carne trasformarsi
in puro spirito/ mi accorgo che sei sveglio/mi scordo che ti afferro”.
Certo, un maschile che, a poco a poco, si ritrasforma in femminile, come il
pesce ermafrodita che dà il titolo al film.