Viola di mare, ovvero la solitudine della lesbica italiana.

26 ottobre 2009

Un paesaggio di pietra di tufo, spettrale, ornato qua e là da erbe di campo che la protagonista del film di Donatella Maiorca “Viola di mare” raccoglie per la famiglia sin da bambina.
La bambina del film è lei, Angela, una donna lesbica realmente vissuta lì.
Gianna Nannini, che ha curato la colonna sonora del film, racconta di averne visitato la lapide al cimitero di Favignana, l’isola siciliana dove è stato girato il film e dove Angela ha vissuto, dal 1868 al 1968.

Un paesaggio nel quale si aggirano donne con lunghi abiti e drappi neri. Visioni che, corredate dagli ornamenti della cultura patriarcale e dall’angoscia che sempre ci procurano, sembrerebbero ironicamente e terribilmente l’Afghanistan. Invece c’è uno splendido mare ventoso tutto intorno. Ed una buona notizia: le lesbiche italiane sono finalmente giunte all’ottocento nella loro narrazione filmica. Ancora le dolci metà muoiono ma in fondo è biografia, ed è un bel passo avanti. Certo, ancora vince il Festival del cinema di Roma Brotherhood, un film che narra un amore di oggi tra due giovani uomini nazi, mentre la storia delle lesbiche resta incagliata al passato, ma è sempre una vittoria riuscire a portare in questo cinema e in questa società misogina questo tema raccontato da donne.
Siamo arrivate fin qui, finalmente, grazie ad un sapiente lavoro di lobby: la regista, che attendeva da dieci anni di fare un altro film (e il primo si chiamava Viola) e nel frattempo ha lavorato per la tv, la prima sceneggiatrice, Pina Mandolfo, che ha proposto la storia, le donne, tra le quali spicca l’assertiva Maria Grazia Cucinotta, che sono riuscite a produrre e distribuire la pellicola (100 copie) e a trovare nella Medusa distribuzioni la rivincita del “mercato” e del privato sul pubblico (“ho avuto tante porte sbattute in faccia”- Cucinotta). Il lesbismo buttato dalla porta dei “grandi” finanziamenti culturali pubblici rientra dalla finestra del profitto.

Personaggi lesbici, protagonisti e diretti da una regista, non ce ne sono nella storia del cinema italiano, fatta eccezione per Benzina (2001). Il film prende quindi anche il sapore di un debutto.

E nell’analizzare le scelte di un debutto si scoprono le volontà, le sensibilità, le difficoltà del passaggio della cultura lesbica italiana da cultura di nicchia a espressione mediatica.
Innanzitutto quello che colpisce me è la bellezza. La bellezza delle due protagoniste, scelte come se nella rilettura di una storia vera si volesse infondere fin dall’inizio un giudizio: la protagonista deve essere bella, perché incarna un ideale che vuole risaltare come giusto, quasi sacro, quello della giustezza, della quasi sacralità dell’amore di una donna per un’altra donna. Visione romantica? Riduzione del lesbismo alla sola emozione totale, dimenticando quelle parziali, e la realtà tutta prosaica e, perché no, felice, che si possono avere relazioni con le altre anche solo erotiche? Scelta commerciale che preferisce i bei volti, le icone, a quelli più realistici?

Che le fotomodelle di Lword abbiano insegnato che dei bei volti e dei bei corpi fanno più audience e non guastano mai è sicuro. Ma pensiamo a Valeria Solarino (sforziamoci però di non pensarci troppo): è di una bellezza che ricorda il significato dell’espressione “bella come il sole”; con lineamenti che impressionano la retina. A lei tocca far rivivere Angela, la lesbica innamorata da sempre della sua amica del cuore, che la aspetta al suo ritorno, dopo l’adolescenza, sull’isola, e la chiede in sposa come se l’avesse deciso da sempre. ... e ci credo, chi non si butterebbe a pesce su di un amore che sembra l’unico possibile da avere su quelle pietre?

La scelta nel cast incastona (scusate), volendo e non, un giudizio di valore. Le lesbiche sono belle. Lo è anche l’amata di Angela, Sara, impersonata da una Isabella Ragonese che sprizza sensualità da tutti i pori ed all’improvviso non è più la collega che tutte avremmo voluto avere di “Tutta la vita davanti”, con la sua dolcezza, i suoi silenzi, ma si trasforma in una donna travolta dal desiderio e che affronta la sua educazione sentimentale con una spontaneità disarmante.
E’ bella anche la Baronessa (Lucrezia Lante della Rovere) che, bontà sua, è l’unica voce “dal continente” ed esprime sia la decadenza (non per niente è nobile...) della sua bisessualità un po’ torbida che il desiderio sessuale tout court, quello “diabolico” che non interessa un copione tutto incentrato sull’amore unico.
Le lesbiche sono belle insomma. Uno a zero, e adesso vediamo come il golem Povia o chi per lui risponderanno a Sanremo alla provocatoria affermazione.
Spicca ancor più però, così, la solitudine della lesbica italiana, nella sua penisola di preti e di coppole, spicca così tanto in questa storia emblematica tanto da consigliare un antiacidità in saccoccia, perché mentre la musica della Nannini schitarra veemente vediamo scorrere davanti ai nostri occhi tutto il repertorio di quello che Pina Mandolfo, sapiente ispiratrice, ha definito alla conferenza stampa del film “il patto etero-normativo patriarcale basato sulla divisione delle donne e della complicità femminile”.

Al Festival del cinema di Roma, ed alla conferenza stampa del 16 ottobre, abbiamo assistito poi ad altri sdoganamenti che era tempo di fare.
Quello delle sopracciglia autentiche: vedere le portentose sopracciglia cucinottiane assieme a quelle italo-venezuelane della Solarino ci conferma finalmente ciò che volevamo, in un mondo di iper de-sopraccigliate e de-private.
Quello delle mamme italiche, con la compiaciuta dichiarazione in conferenza di Giselda Colodi, la mamma di Angela nel film, una madre che escogita un modo per permettere alla figlia di vivere liberamente vestendosi da uomo... e pensare di quanto hanno rotto le scatole a noi figlie in questi decenni perché ci vestivamo “da maschio”!

Quello dell’uso del ricatto a fin di bene: non sto parlando del molestatore de L’Avvenire recentemente in cronaca italiana ma del parroco dell’isola, che nella storia viene messo alle strette, (per convincerlo a ribattezzare Angela in Angelo) da madre e zia, una terribile Cucinotta sicula che apre vecchi armadi parrocchiali. Deliziosa la scena “mafiosa” dell’arrivo delle due donne dal prete.

Quello dei set tutti al femminile, per girare scene di sesso estremamente belle (del resto se è vero che, come ha detto la Mandolfo, si aspettava questa storia da 30 anni c’è stato tempo per disegnarle!), set che, come ha suggerito la Ragonese in conferenza stampa, ha creato l’agio e la libertà di girare e rispetto a cui confessa diabolicamente di aver trovato più facile girare sesso omo che etero, “per il quale, dice, c’è sempre un po’ più di timore”. I sorrisi sotto i baffi (fortunatamente non presenti e non sdoganati) si sprecano, i giornalisti proprio questo tema aspettavano, la “ parte difficile” della conferenza stampa scivola via.
Ed, a proposito di erotismo, un altro sdoganamento è avvenuto sul Red Carpet del festival: con il bacio finto tra Solarino e Ragonese che prova che “italians do it better” rispetto a Madonna.

Per finire: non sappiamo se il film “cambierà il senso comune”, aspettiamo una lobby anche in Parlamento, noto luogo di discussioni da bar.
Nel frattempo, lesbiche italiane, chiediamoci se mai avremo la soddisfazione di capire da dove sgorga la poesia della canzone di Gianna Nannini che fa da finale al film, “Sogno”, un testo realmente ispirato ma nel quale, come al solito, il soggetto è maschile “sogno la mia carne trasformarsi in puro spirito/ mi accorgo che sei sveglio/mi scordo che ti afferro”. Certo, un maschile che, a poco a poco, si ritrasforma in femminile, come il pesce ermafrodita che dà il titolo al film.

La bellissima frase della canzone “sogno che entra il mare in questo bosco di frattaglie” può evocare l’irruzione del desiderio lesbico in un panorama di donne fatte a pezzi. Quello che mi chiedo è quando solo i sogni smetteranno di essere veri in questa Pen-isola da favola.
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