Acidula mora di bosco

23 marzo 2006

«Solitario, mi scuoto e affondo, vizioso, forse brutto, d'alito pesante, grosso il fegato, di fiamma, croste agli angoli della bocca, come le unghie del dito vetroso, logori i calzoni sulla patta, sfondate le scarpe al suolo, come a un avventuriero che trascina la gamba sul tappetino gommato del metrò e poi rincorre due ragazzi belli persi sul gradino più basso, all'ingresso della stazione» (p. 8).


Fede è un liceale, che, dopo un morboso rapporto di identificazione con la sua amica Alba, si scopre omosessuale. A Fede manca ancora una precisa costituzione affettiva, perché lacerante è per lui il vissuto di una madre che lo allontana con la violenza di chi è intenta a lenire il dolore delle sue ferite narcisistiche. Mamma Aurora è l'istintiva attrazione per la donna dell'incesto negato, Alba, più sognata che amata, più agognata che posseduta, è quella luce mattutina che non ti riscalda se, indagata l'umida e femminea notte, scopri che ti piace quel giorno che proietta sull'asfalto la tua stessa ombra. Sullo sfondo la solitudine angosciante di Ano Retto, patrigno in una Milano postmoderna ancora da esplorare. Senza avere ancora i freni inibitori della logica, il protagonista del racconto indaga il suo malessere, alla ricerca di un oggetto sessuale che lo liberi dal polimorfismo del suo delirio onirico.

Acidula mora di bosco è, in questo senso, un 'Bildungsroman', un racconto di formazione, come spiega Marco Ariani nella quarta di copertina, costruito come un ininterrotto flusso di coscienza, guidato dallo sguardo che il protagonista Fede getta su persone e cose in «una sorta di fusione ardente che tutto brucia e trasforma in inarrestabili sequenze di immagini». Immagini, metafore, il ritmo stesso della narrazione, rivelano quelle persone e cose, il cerchio familiare di Fede, il mondo circostante, nella loro essenza di frantumazione, insieme troppo distanti e troppo pesantemente presenti, fino a diventare quasi solo materia fisica, carnale, corporea, di un rapporto inquietante e tuttavia mai sospeso. Quel mondo esterno, Alessandro Morgillo lo coglie, lo restituisce e lo descrive con estrema intensità attraverso una molteplicità di registri espressivi (monologo, dialogo teatralizzato, inno, delirio onirico, narrazione), e lo conduce quasi a scoppiare, per trovare dell'altro. Il microcosmo di angoscia, o impotenza, o straniamento, è l'aspetto più appariscente del flusso di coscienza, ma non il solo, né, forse, il più importante: è quello che chiede di essere superato, andando oltre.


«Non ho vita, una forza attiva che mi muova, un affetto che mi solleciti, accogliendo la mia forma, non più solo organismo...» (p. 13). Il filo conduttore del libro è la vita, la tensione verso la vita, forse proprio la conquista della vita, di un accesso alla vita. «Cosa farò della mia vita, Nonno Casto? È come se fossi al casinò e l'omino che mi invita a rilanciare inappagato, volesse intrattenere, distrarmi, sedurre, tarda la mia fine, ma quando al mattino hai appreso la via, la sera puoi anche perire come formaggio, verdognola la muffa sulla crosta, brindando alla ricerca che sudicia lo stolto, non io: Saggio chi trova in sé, volgare l'uomo che cerca altrove, fra le cose di tutti e di nessuno. Fuggo dalla gabbia l'abitudine, seguendo la mia vera inclinazione, che altri chiamano peccato, sempre accanto a seguirmi insanguinati» (p. 30).


Se accettiamo la prospettiva della separazione, sembra dirci questo libro, se cediamo a quella separazione che già sempre è data, e ci abita, se non le opponiamo resistenza, «siamo tutt'uno, anima e corpo, con la giungla d'asfalto che ci ingloba impotenti. Estraniati [...] Ingabbiati nel traffico, ironizzando per non morire, fagocitando quello che ci circonda e indigesto, avendo perso il succo puro della vita, che sfuma dai tessuti erosi d'uno stomaco senza memoria d'affetti, come tela bucata da un gesto che non è un grido» (p. 39). La scoperta del protagonista è che la risposta alla solitudine nasce dalla solitudine, cioè da se stessi; che in un certo senso c'è una qualità della solitudine che non è mai veramente solo tale, ma pura intenzionalità, che esige un riempimento; che alcuni nostri lacci vanno tagliati, altri sciolti e liberati; che il mondo va decifrato e restituito alla prossimità: «La risposta è dentro di noi, sinuosa come serpe nello spazio incantato. Quotidiano il cammino, il sentiero non s'avvicina cercando oltre: Fermati sull'esperienza, finché continuerai affannosa la ricerca, di fame non ti placherai mai. Lascia che spontaneo il sesso scaturisca dal modo in cui conduci, di passione, la vita...Non provare, sii [...] Conosci la verità: Il tuo appagamento sia ricerca e spirito» (p. 51).


«Desidero che incameri l'occhio più luce» (p. 52). Tutto il tragitto dell'io narrante in Acidula mora di bosco conduce a concepire questo nuovo desiderio: un desiderio che non è più solo dolorosa esperienza dell'assenza, ma capacità di cogliersi come intenzionalità attiva, che sintetizza l'io con il mondo, invito a scavare se stessi, estraendo conoscenza e forza, a captare luce, ogni giorno.


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