recensione di Mauro Giori
True Blood
Quando di omosessualità era proibito parlare, l'espediente più semplice cui si poteva fare ricorso era "spostare" (in termini analoghi ai procedimenti onirici individuati da Freud) l'attenzione su altre forme di marginalità. Si parlava di altre diversità, ma per parlare in metafora di omosessualità. I casi estremi servono poi particolarmente bene allo scopo: correlativi perfetti sono mostri di ogni tipo (si pensi già al Frankenstein di Whale del 1931) e supereroi ai margini del consorzio sociale che pure devono difendere (gli esempi si sprecano, da Batman alle recenti imprese degli X-Men cinematografici).
L'operazione messa a segno da True Blood non ha perciò nulla di originale in sé, ma rappresenta sicuramente un caso interessante poiché si colloca in un momento in cui la televisione sembra aver finalmente superato il tabù dell'omosessualità e, non avendo più la necessità di ricorrere a spostamenti e metafore, può parlare apertamente di qualsiasi cosa, non solo nella forma della commedia. La metafora, dunque, non è qui una necessità, ma un gioco, una forma liberamente scelta di discorso tra gli altri ormai possibili (oltretutto, nella serie non mancano personaggi esplicitamente omosessuali, sia umani che vampiri, coppie fisse incluse).
Alcuni risultati sono retoricamente efficaci: i vampiri sperimentano la diffidenza e la vampirofobia in tutte le sue forme (dalla violenza - omicidio incluso - ai raid della polizia nei locali per vampiri, dall'accumulo di stereotipi agli assalti dei fondamentalisti religiosi) e si organizzano in un movimento per rivendicare i propri diritti, discutendo al loro interno sulle forme e sull'opportunità dell'integrazione. E che dire poi degli umani che frequentano i locali per vampiri in cerca di esperienze sessuali alternative?
Un modo, dunque, potenzialmente intrigante di sfruttare la moda giovanilistica delle serie soprannaturali e dei Twilight, sulla falsariga di realtà (a noi) ben note della comunità omosessuale. La forma, purtroppo, è però la stessa: ritmo lento, languori estenuanti, piagnistei adolescenziali a profusione, estremo risparmio sui costumi (il che andrebbe anche bene, ma l'eccesso diventa risibile, soprattutto a fronte dell'accurata censura dell'immagine). Peggio, i personaggi sono esasperatamente privi di rotondità (il che non è irrilevante per una serie animata da cotante ambizioni allegoriche): dalla nonna alla Dawson's Creek che sforna con pari solerzia torte e buoni consigli, promuovendo l'integrazione, al fratello decerebrato che si farà ovviamente reclutare da un'improvvisata chiesa fondamentalista. Una piattezza generale legata anche al fatto che la maggior parte degli interpreti erano geneticamente destinati ad altro mestiere, a cominciare dalla protagonista.
All'atto pratico, dunque, il risultato è piuttosto deludente rispetto a quanto lasciava sperare sulla carta.