recensione diMauro Giori
The Prisoner
Rifare una visionaria miniserie di culto come Il prigioniero (1968) è un'impresa a dir poco ardita. Gli autori della nuova versione prodotta per il canale AMC hanno fatto però la scelta giusta, rendendo al modello solo qualche parco omaggio, perlopiù iconico, come il velocipede che campeggia in un locale (e che costituiva il logo del Village originale) e il guardiano Rover (un'enorme sfera bianca) che insegue i fuggiaschi.
Per il resto, la nuova serie opta per un totale ripensamento del soggetto di partenza, anzi meglio per un suo aggiornamento culturale: la distopia pop del 1968 (di cui è emblematico il finale sulle note dei Beatles che ricorda la coeva rivoluzione di If…) viene così riletta in chiave psicologistica e adattata all'era della realtà virtuale. A parte il fatto che tutti i personaggi hanno per nome un numero, dell'originale rimane così ben poco: il Village perde anche i connotati postmoderni del Portmeirion Hotel costruito da Williams-Ellis in favore di un'inquietante architettura da villaggio turistico caraibico, e non rappresenta più un quieto paesello orwelliano dove spie a rischio di tradimento vengono rinchiuse e addomesticate, bensì uno dei livelli di coscienza scoperti da una psicologa e creati dalla sua mente, con l'ausilio delle tecnologie informatiche messe a disposizione dalla potente industria del marito. In questa sorta di mondo parallelo persone insicure, insoddisfatte, in crisi personale possono essere relegate per essere rieducate e "riparate" in funzione di un loro prossimo reinserimento sociale. Senza che gli interessati abbiamo ovviamente fatto domanda.
Ora, in questa realtà virtuale, circondata da un deserto dominato da due torri quasi gemelle, vi sono però anche individui che sono stati partoriti dalla mente che ha dato vita al Villaggio stesso, e che quindi non possono uscirne. Anzi, il Villaggio è stato creato proprio per dare vita a uno di questi personaggi: il figlio della psicologa, che di figli nella realtà non può averne. In questo livello di coscienza che è di fatto una realtà virtuale parallela al mondo reale, la donna si trova dunque con un ragazzo adolescente, 11-12, mentre il marito, 2, è ovviamente a capo dell'intera comunità. Ma non si tratta di una realtà perfetta. La donna può infatti mantenere vivo il villaggio solo a patto di essere quotidianamente sedata con dei farmaci. Il figlio, dunque, non ha di fatto mai potuto incontrarlo. E lui ne soffre, ovviamente. Lo sbandamento del ragazzo si esprime in una situazione affettiva alquanto problematica, ovviamente conflittuale rispetto al padre che governa il Villaggio con fare ambiguo.
Se ne ricava l'impressione che il giovane frequenti un locale malfamato (dove rimorchia uno dei collaboratori di papà con cui avvia una relazione) semplicemente per reazione all'ambiente in cui è cresciuto. Così come convince poco il fatto che quando papà scopre tutto, per non rischiare rappresaglie il giovane uccida il fidanzato. Supremo atto d'amore, si dice. Fatto sta che quando il ragazzo comprende di essere solo il personaggio di un Villaggio artificiale, e di non poter quindi tornare alla realtà, uccide la madre (o meglio la sua replica virtuale), visto che non avrebbe mai potuto godere della sua vicinanza. Così facendo mette però a rischio l'esistenza stessa del Villaggio.
Peraltro, papà sembrava non aver grandi problemi ad accettare l'omosessualità di 11-12: dopo l'omicidio del compagno, gli aveva infatti semplicemente consigliato di trovarsi qualcuno della sua età (probabilmente perché anch'esso nato nel Villaggio, quindi "virtuale" quanto lui). Insomma, anche qui si gioca sull'ambiguità e non si comprende quanto l'atteggiamento di 2 miri alla felicità del figlio e quanto a farlo tornare entro la "norma".
11-12 è un personaggio, in ogni caso, alquanto problematico, adolescente inquieto incapace di sottrarsi al controllo di un padre-padrone che si spinge fino a riesumare tratti di stereotipi datati, sia pure limati dall'ambiguità. Un assassino, ma per amore. Un individualista, ma anche capace di ribellarsi a un sistema totalitario che tiene tutti sotto controllo.
La necessità di farne un omosessuale rimane dubbia. Più degli stereotipi nuoce però in questo caso l'ingessatura dell'interprete, inespressivo al punto da rendere imbarazzanti i suoi duetti con Ian McKellen, la cui palpebra sinistra è capace di un numero di sfumature infinitamente superiore all'intero volto di Jamie Campbell Bower.