recensione diMauro Giori
Howl
Epstein e Friedman si sono fatti un nome come documentaristi, e più nello specifico come documentaristi di cose gay. The Celluloid Closet, The Times of Harvey Milk e Paragraph 175 hanno consolidato una carriera di tutto rispetto. Howl rappresenta una deviazione parziale da questo loro cammino, optando per quella forma intermedia fra documentario e film di finzione nota come docufiction. La deviazione paga male.
Anzitutto, perché non sembra così necessaria: non manca certo documentazione di prima mano per ricostruire il processo intentato contro Ferlinghetti per aver pubblicato la celebre poesia di Allen Ginsberg. Il risultato ha l'aspetto di una di quelle scolastiche ricostruzioni d'epoca fatte per la didattica televisiva, solo un po' più laccata, a cominciare da un casting che asseconda più gli attuali canoni hollywoodiani che le necessità dei una rievocazione credibile. James Franco come Allen Ginsberg, per quanti sforzi faccia (e sono tutt'altro che disprezzabili), lascia indifferenti e perplessi: tanto varrebbe fare interpretare a Bradd Pitt la parte di Truman Capote o quella di Gertrude Stein a Nicole Kidman.
Ne esce quella che complessivamente è una noiosa, insoddisfacente ricostruzione di un evento centrale nella storia della cultura omosessuale (e non solo), montata con mestiere alternando eventi diversi per natura e collocazione temporale, ma senza una spina dorsale capace di imprimere una direzione al materiale, rimesso in scena con garbata assenza di passione (è il caso persino delle discussioni processuali). Lo stesso si può dire delle animazioni: nulla di peggio si poteva immaginare che illustrare senza immaginazione una poesia tanto innovativa, senz'altra idea che quella di fare una sorta di Fantasia beat. E l'ultima cosa di cui il film poteva aver bisogno era di un kitsch privo dell'ironia del camp e con invece l'equivoca consapevolezza del trash.