recensione di Mauro Giori
Un western omosociale
Il racconto è costruito cucendo insieme luoghi comuni del genere, non senza una certa ironia propria delle sue filiazioni nostrane (il cosiddetto spaghetti-western): una rapina, un tradimento, dell'oro non spartito nei modi dovuti, una vendetta da perseguire, un eroe solitario, una cittadina del West spaurita da un possidente che spadroneggia e detta legge, ecc.
Giulio Questi vi aggiunge una dose non proprio consueta di violenza, che a suo tempo disturbò i censori (il film fu vietato ai minori di 18 anni), e qualche ambizione intellettualoide. Gli sceneggiatori si sono divertiti, ad esempio, a introdurre una variante inedita, almeno nella forma e nella quantità se non nella sostanza, ricamando sul confine tra omosocialità e omosessualità nell'illustrare l'organizzazione del consueto esercito privato al soldo del possidente di turno. «Mangiare, bere, contemplare la propria vittima: non c'è nulla di più sensuale», teorizza l'interessato mentre i suoi accoliti ronzano intorno al giovane e biondo figlio del barista del paese che hanno rapito. «Li ho educati da maestro! Guarda con che appetito mangiano, con che golosità bevono, e soprattutto… come guardano il muchacho…», continua: e in effetti si beve, si mangia, si guarda e poi si tocca anche, il tutto sotto gli occhi del protagonista maschile, che l'antagonista cerca inutilmente di irretire. La mattina seguente, la macchina da presa indugia sui corpi seminudi dei banditi sparsi dopo l'orgia (data ovviamente per sottintesa), mentre il ragazzo al suo risveglio sottrae una pistola a un bandito e si suicida.
Nella seconda metà degli anni Sessanta l'eros filtrava ormai in ogni anfratto del cinema, d'autore così come popolare: nonostante le resistenze dei censori e gli anatemi della cultura democristiana, il richiamo sul pubblico e il desiderio di monetizzare dell'industria erano troppo grandi. Se sei vivo spara offre quanto meno qualcosa di diverso dalle solite lesbiche immolate ai pruriti del pubblico di massa (eterosessuale), svendute in finti documentari, finti drammi "francesi" o finti film educativi "svedesi". Certo, associare l'omosessualità con la depravazione, la violenza e la criminalità non era una scelta originale, e lo era anche meno associarla al fascismo (anche solo metaforicamente, come in questo caso). Ma la metafora è talmente labile (i cattivi vestono di nero) che a risultare in evidenza è piuttosto l'effetto erosivo che l'inserimento dell'omosessualità viene ad avere all'interno di un genere machista per eccellenza, sia pure nella sua variante italiana, che aveva sempre un fondo ironico.
Una film eccentrico, dunque, che merita una scorsa.