Ermanno Randi

12 marzo 2006, "Pride", gennaio 2006, col titolo "Ombre su Cinecittà"

Se sui misteri di Hollywood molto si è detto e scritto, su quelli caserecci del nostro cinema, invece, è in vigore il tacito assenso per non fare trapelare nulla al di fuori di una ristretta cerchia di pettegoli. Tutti sanno ma non scrivono che quel regista-attore è da anni convivente, à trois, con quel tal ex attor-giovane che piazza ovunque nei suoi lavori. Che quell'agente X ha messo su casa con il biondo Y. Né si può dire chiaro e tondo che un celebre regista, che fu amante in gioventù di un vero grande artista, abbia un debole da anni per un belloccio di mezza tacca disposto a dire qualsiasi cosa in televisione pur d'atteggiarsi a latin-lover. Ma è appunto in tivù, in politica e nel mondo del calcio, che oggi si nascondono intrallazzi più o meno segreti, da numeri da circo equestre, che farebbero impallidire la Cinecittà dei tempi d'oro. Ma anche su fatti distanti nel tempo è raro trovare conferme e indizi. In Italia nessuno ne ha mai fatto un libro per paura di querele da parte d'eventuali eredi. Eppure nel 1951 un grande scandalo scosse tutti gli addetti ai lavori e fece notizia con clamore sui giornali, per poi essere completamente dimenticato. Primo e unico esempio del suo genere. Forse fino all'omicidio Pasolini nel 1975. Mi riferisco all'attore "insospettabilissimo" Ermanno Randi, che nel 1951 fu ucciso dal suo amante Giuseppe Maggiore durante una crisi di gelosia. Ermanno Rossi, questo il vero cognome, nato nel 1920 ad Arezzo, figurò in quattro anni in ben diciotto pellicole e in almeno 3 o 4 come interprete principale. Una carriera fulminante. Il suo cammino era iniziato sui palcoscenici del varietà. Fu Anna Magnani che, oculata, notandolo tra i ballerini della sua compagnia, pensò che quel bel ragazzo potesse avere dei numeri come attore e suggerì di fargli dire qualche battuta. Finì per recitare nella compagnia di Nino Taranto ma la guerra troncò la sua carriera. Si arruolò come paracadutista nella Folgore e poi combatté al seguito dell'Ottava Armata alleata sul fronte di Cassino. Finito il conflitto iniziò a frequentare l'Accademia d'Arte Drammatica e poi entrò nell'ambiente cinematografico, riuscendo ad ottenere delle piccole parti. Nel 1947 esordì con Caccia tragica di Giuseppe De Santis, continuò con L'ebreo errante di Goffredo Alessandrini, a fianco di Vittorio Gassman (con cui girerà altri due film) e Valentina Cortese. Poi, ottenne un ruolo più importante, in Anni difficili di Luigi Zampa. Nel 1948, figura in Riso amaro di De Santis, con Silvana Mangano. Il ruolo che gli dette più fama fu ne Il fuorilegge di Aldo Vergano nel 1950. Subito dopo girò Lebbra bianca di Enzo Trapani, con Amedeo Nazzari e in cui era sedotto da un'allora debuttante Sophia Loren. Divenne un vero divo, nel 1951, con il film Enrico Caruso: leggenda di una voce di Giacomo Gentilomo, con Gina Lollobrigida e un altro attore molto "chiacchierato" come Lamberto Picasso. Grazie a questo successo ebbe un nuovo ruolo, nel patriottico Trieste mia di Mario Costa. Un fatto inquietante è legato alla fine delle riprese del film, quasi due ore prima dell'assassinio dell'attore. Il finale prevedeva che il personaggio interpretato da Randi dovesse morire. La ripresa non venne bene, l'attore era nervoso e non verosimile. Il regista la fece ripetere un'infinità di volte sul set costruito a Fiumicino, tirando tardi fino all'alba, senza che la scena fosse stata girata comme il faut. Una volta tornato nel suo appartamentino a Roma, in un mezzanino di Via Apulia 2, in zona San Giovanni, alle tre del mattino trovò il suo convivente trentatreenne Giuseppe Maggiore, nato a Palermo, ex commerciante di vino e sedicente cantante lirico, furente. Questi non voleva credere che il ritardo dell'amante fosse dovuto solo a cause di lavoro. Randi gli rispose con aria annoiata: "Ho sonno lasciami in pace". Fu questa la goccia che fece traboccare il vaso e Maggiore sparò ben sei colpi di pistola all'attore, di cui solo tre andarono a segno. Randi si trascinò alla finestra, vestito in canottiera e con i pantaloni del pigiama di seta, rompendo con un gomito la finestra e gridando con voce arrochita "Aiuto! Mi stanno ammazzando!". In quel momento s'udì un settimo colpo di pistola. Giuseppe Maggiore s'era rivolto l'arma verso se stesso cercando di spararsi al cuore. Testimoni dell'accaduto furono un giovane straccivendolo e una guardia notturna che stavano passando lì vicino, attirati dal trambusto. Il portoncino di casa si aprì e apparve Randi imbrattato di sangue. Barcollante cadde tra le braccia dei soccorritori mentre con un filo di voce mormorava "Lassù c'è un altro ferito, andate ad aiutarlo". Lo straccivendolo fermò una macchina di passaggio e l'attore fu trasportato immediatamente al vicinissimo ospedale. Dopo pochi minuti vi fu portato pure l'amante, trovato semisvenuto in casa, ferito solo lievemente. Invece per Randi non ci fu più nulla da fare e con una straziante agonia morì dopo qualche ora. L'omicida, subito interrogato dal commissario Maselli, prontamente tirato giù dal letto come nei polizieschi di una volta, concluse lo spettacolare gay drama con una confessione appassionata. "Non voleva più vivere con me", disse,"e conduceva una vita scandalosa, sempre a spasso con altri". Poi consegnò al poliziotto due lettere, una diretta ai genitori di Randi, l'altra alla questura. Nella prima scrisse: "Ho amato vostro figlio teneramente e l'ho conosciuto assai più intimamente di voi. Volevo portarlo sulla retta via ma non ci sono riuscito. Vi chiedo perdono". Nella seconda lettera l'omicida pregava la polizia di non dare "troppa" pubblicità al delitto. Le lettere erano già state scritte da almeno due giorni e Maggiore aveva tentennato non poco nel suo intento delittuoso. Per questo fu formalmente accusato di "omicidio premeditato e aggravato". Dalle indagini si scoprì che i due amanti convivevano nella garçonniere acquistata da Randi da quasi un anno. Da due erano inseparabili. Gli articoli apparsi sulla stampa dell'epoca non si risparmiarono certo in giudizi morali quanto in dettagli pruriginosi. Forse perché la D.C., nel 1951, non poteva ancora imporre capillarmente il suo strapotere, basato sulla regola di non scrivere cose "sconvenienti" per non indurre in tentazione di peccato. Persino la rivista cinematografica di vasta diffusione popolare Hollywood, in un bell'articolo di Emilio de' Rossignoli scrisse:

Una passione insana era nata tra i due giovani, ma in seguito i loro rapporti si erano raffreddati e ultimamente Randi aveva affermato a varie riprese di voler troncare il morboso legame. Maggiore, chiuso nella cupa morsa del vizio, s'era opposto, aveva minacciato di morte l'amico, ma Ermanno gli aveva riso in faccia.

Stranamente tutti i giornali riportano come età dell'attore 28 anni, mentre invece ne aveva già 31, due meno del suo assassino. Si preferiva portare avanti lo stereotipo del giovinotto, soggiogato da un uomo più anziano e pervertito. Nelle foto, l'omicida appare come un tipo banale, assolutamente non bello che dimostra almeno vent'anni di più. Su l'Unità, pochi giorni dopo il delitto, c'è un articolo dal titolo: L'assassino aveva visto nell'attore una facile fonte d'infame guadagno. Perquisendo la casa, si scoprì un giornale in cui Giuseppe Maggiore aveva sottolineato a biro la notizia in cronaca nera di un delitto di gelosia. Infatti, fu proprio al delitto passionale che il siciliano cercò d'appellarsi nella sua mente confusa. L'articolo 587 del codice penale, che ne prevedeva una pena ridotta da 3 a 7 anni di reclusione, è stato abolito solo nel 1981 e non fu mai applicato per legami omosessuali. Figuriamoci nel 1951 in cui i gay erano ritenuti degli "anormali" tout-court! Non si sa come andò a finire la vicenda ma è logico pensare che l'omicida, fu dichiarato infermo di mente. Eppure, nell'articolo, affiorano altre novità scavando nel passato degli amanti, naturalmente viste con l'occhio moralistico dell'epoca, giudicando i gay come esseri disperati, viziosi, meschini e grifagni. Giuseppe Maggiore, di una ricca famiglia di commercianti vinicoli, in cerca di facili guadagni senza fatica iniziò a frequentare la "gente del cinema" (cioè i gay di quell'ambiente), finché:

Non appena ebbe conosciuto il Randi e compreso che cosa l'attore voleva da lui, colse la palla al balzo ed accettò ben volentieri di diventarne il "segretario particolare". Da quel momento in poi cominciò a fare una strana vita. La mattina usciva a fare la spesa, come una brava massaia. Acquistava nei negozi dei dintorni il pane, la carne, il vino, i dolci per sé e per il Randi. Cucinava. Lavava la biancheria, stirava, spazzava, rifaceva i letti. Nelle ore di riposo leggeva Freud e Oscar Wilde, in spagnolo, perché era stato a lungo in Argentina. E pensare che a Palermo, alcuni anni prima, aveva avuto una fidanzata, una brava ragazza, che forse ancora si rammarica di essere stata piantata in asso. La "devozione" del Maggiore per il Randi non era disinteressata. Il danaro necessario per lo strano "ménage" lo guadagnava l'attore(...)Inoltre il Randi gli aveva promesso in "dote" un umilissimo spaccio di liquori e di vini all'ingrosso e al minuto, perché l'avvenire e la vecchiaia fosse tranquilla e serena! L'avidità di denaro, il vizio più ripugnante, la grettezza e l'ignavia si mescolavano stranamente nella coscienza dell'ex- commerciante. Egli, sfruttava spietatamente l'anormalità dell'artista e fremeva di rabbia e di paura ogni volta che vedeva il Randi perduto dietro ad altre passioncelle fugaci. Gelosia? Sì, forse(...)Il suo amor proprio era ferito, in quei momenti, ma soprattutto era il terrore di perdere una fonte di facile lucro che lo agitava e lo spingeva a fare all'"amico" delle scenatacce furiose. E quando il Randi gli fece capire di essere stufo di lui, quando cominciò a trascurarlo sempre più a lungo per altri e si rifiutò di fornirgli il danaro per il negozio promesso, il Maggiore divenne una belva e concepì il disegno di vendicarsi. Questa è la storia. Spetterà ora ai giudici trarre con le cifre (tanti anni, tanti mesi, tante lire di multa) una conclusione dei fatti. Ma sarà ben poca cosa. Il problema di una corruzione dilagante, che trae incentivo dallo sfacelo di strati imputriditi della nostra vacillante società.

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