Tamara De Lempicka

Mammiferi di lusso

14 giugno 2007, "Vanity Fair", n.42 , 26 ottobre 2006

La Tamara de Lempicka (leggesi: Lempiska) regina dell'Art Déco è una invenzione assai recente.

Risale al 1972, quando una mostra parigina organizzata da alcuni giovani galleristi la rilanciò sul mercato. La sua fortuna fu quella d'avere ancora accatastati in soffitta, nel suo studio parigino scampato alle distruzioni della guerra, tutti i lavori dipinti ai tempi d'oro, tra il 1923 e 1935, mai venduti per motivi affettivi.

Ritratti di sua figlia, di due mariti e dei molti amanti, sia uomini che donne.

Quasi tutte persone, a conti fatti, su cui Tamara aveva regnato dispotica e spesso amareggiato la vita.

Lei, ormai ricchissima e nota come baronessa Kuffner per seconde nozze, aveva già dimora fissa in U.S.A. dal 1939 e quasi non voleva più sentir parlare dei suoi vecchi quadri. Ma l'esposizione fu un vero trionfo, tutto andò venduto e i giornali di mezzo mondo esultarono per la fresca e sconvolgente sensualità del suo stile.

Cinque anni dopo, l'editore Franco Maria Ricci le dedicò un sontuoso volume. Pubblicandovi anche documenti segreti rinvenuti al Vittoriale con piccanti aneddoti, tra il boccaccesco e la pochade, del tira e molla erotico tra la bellissima pittrice e un Gabriele D'Annunzio sul viale del tramonto. Lei poi lo epitetò lapidaria come "l'orribile nano in uniforme", battendo in cattiveria solo la divina Sarah Bernhardt che annoiata se lo levò da torno definendolo: "dagli occhi dardeggianti sì...ma color cacca".

Il resoconto dettagliatissimo si trovava nei diari inediti annotati da Aélis Mazoyer, governante e tenutaria dell' harem privato del poeta.


Sia ben chiaro, tra Tamara e Gabriele accadde ben poco ed è per questo che si creò tanto leggendario scalpore.

Più che dama di cuori, lo fu di picche. Un match a tre riprese, accaduto in date diverse tra il 1926 e il gennaio 1927.

Lei voleva fargli il ritratto ad ogni costo, cosa che le avrebbe fatto molta pubblicità mondana, lui voleva in cambio una cosa sola. Il suo solito chiodo fisso. Ma Tamara era la personificazione d'una donna moderna, troppo libera e gelida arrivista, che poco aveva in comune con le sultane dannunziane che "spoltronivano", ansimando, su languidi cuscini.Inizialmente lei si negò per paura di beccarsi la sifilide, poi tentennò col frottage ma non volle togliersi i vestiti, infine ci ripensò ma non volle baciarlo sulla bocca perché gli faceva schifo la sdentatura cariata del poeta. Come diversivo s'inventò, lì per lì, persino d'avere il fetish di farsi baciare le ascelle pur di regalargli un brivido d'immoralità. Poi lui fuggì, imbarazzato dal ridicolo, coprendosi con le mani guance e collo impiastricciati dal di lei rossetto parigino.

Per farlo ancor più strano, la portò in gita in aeroplano per eccitarla ma lei si beccò una raffreddata. Stesa a letto con la febbre, per dei giorni, lui le stette addosso spennellandola col sesso turgido finché lei, in un attimo di lucidità, gli disse secca: "Ma perché mi fate tutte queste porcherie?".


Smontato all'istante, ritentò poi un altro attacco la notte dopo. Portandosi appresso l'usuale kit, di supporto all'estasi d'amore, dentro una cartella di cuoio: foulards, profumi, cocaina e chissà quali altri giocattoli da prestigiatore.

Si tolse il pigiama per mostrarsi nudo nel suo, fin troppo, maturo splendore e lei girò subito la faccia dicendo: "Ho l'orrore per la pornografia". Non pago, cercò di saltargli addosso e nel frangente lei si lasciò sfuggire la frase: "Forse ha evitato di nominare il ritratto perché non sa i miei prezzi". E fu la goccia che fece traboccare il vaso, con lui che urlò: "Signora voi osate parlare così a D'Annunzio?". E poi subitaneo svanì con la cartella sottobraccio, facendo rintuonare per le ingombrate stanze il pianto lamentoso: "Sono un vecchio, un vecchio! Ecco perché non mi vuole!".


Tamara il giorno dopo, in modo dimesso, fu invitata cordialmente ad andarsene alla chetichella.

Ma la Mazoyer, nel suo diario, ci tenne a precisare che "la polacca"(o ancora meglio, "la cammellona") non aveva certo restituito al Vate i gioielli ricevuti in dono del valore di circa 25 mila lire (almeno 15 mila euro di oggi). Oltre ad un anello con enorme topazio che D'Annunzio le fece recapitare a Milano, da un suo messaggero su cavallo bianco imbizzarrito in piena Via Manzoni, insieme ad una pergamena con una poesia composta solo per lei, a noi purtroppo non tramandata.

Tamara, per vezzo, l'avrebbe sfoggiato all'anulare sinistro fino alla fine dei suoi giorni nel suo buen retiro a Cuernavaca, in Messico. Sin quando non morì, il 18 marzo 1980, e diede ordine di gettare le sue ceneri nel cratere del vulcano che lei vedeva in lontananza dalle finestre di casa.


Tutto il pasticciaccio dannunziano, pubblicato a tradimento e abbinato, soprattutto, alla sua opera pittorica fece molto arrabbiare la ottuagenaria artista. Tanto da farne peggiorare per sempre la salute. Sbraitando di continuo come un'aquila: "Dopo quarant'anni di duro lavoro, verrò ricordata solo per le chiacchere d'una servetta!".

Ma il grande clamore richiamò, ancora di più, l'interesse dei mercanti d'arte e i suoi quadri incominciarono ad essere ricercatissimi.

Qualche fortunato poté trovarne, a pochi dollari, nei mercati delle pulci di New York. D'altronde era pur sempre stata una semi-sconosciuta anche nei suoi giorni migliori. Sempre al di fuori dal "giro" delle avanguardie storiche e legata soprattutto alla peinture mondaine, ad uso e consumo dei raffinati scialacquatori dell'alta società.


Ma chi avrebbe mai potuto prevedere che un quadrone venduto nel 1975 a tremila dollari, il celebre e conturbante Adamo ed Eva, sarebbe poi entrato nelle collezioni di Barbra Streisand ed infine rivenduto ad un privato per quasi due milioni di dollari nel 1994? Eppure questa pittrice, d'immenso talento, ha faticato ad entrare nel pantheon del modernismo e fino a qualche anno fa non veniva mai presa in considerazione da critici e studiosi d'arte. Neppure quelli specializzati in Art Déco la includevano nelle loro antologie, storcendo il naso sul suo recente exploit commerciale.

Pensavano fosse solo un fuoco fatuo attizzato da case d'aste e galleristi.

Roba per nouveaux riches come Madonna, Jack Nicholson e Donna Karan che ne sono i principali collezionisti al mondo.

Rinfacciando alla pittrice d'essere troppo chiara ed accessibile nella forma, troppo sfacciata nei contenuti soft-porn e perciò troppo velocemente amata dalla cultura popolare.


La Lempicka, che lo si voglia o no, è oggi la pittrice più famosa dell'intera Storia dell'Arte. Molto di più di Frida Kahlo. Non solo. E' anche l'unico artista, in assoluto, con cui immediatamente s'identifichi il periodo dell' Art Déco. Altrimenti archiviato frettolosamente come un muto bric-à-brac d'oggetti ed edifici, non sempre di gusto eccelso.

Uno stile internazionale che in Francia si diffuse dalla fine della Grande Guerra, fino all'arrivo dei nazisti a Parigi nel 1940.

Basti pensare che il termine "Art Déco" fu coniato dagli storici solo nel 1966, prima lo si identificava solo come un vago e frivolo periodo "modernista".

Uno stile che incarnava la libertà sessuale, scatenata e creativa, della joie de vivre d'una Parigi esotica, affascinante e sexy degli anni del jazz.

Nel 1918 Tamara vi arrivò come una profuga, scampata miracolosamente alla rivoluzione russa e senza molti soldi. Con un marito, Tadeusz Lempicki, che non voleva lavorare, perché riteneva la cosa assai volgare per uno del suo ceto.


Nata Tamara Gurwik-Gorska da un ricco ebreo russo e madre polacca, in un anno mai ben precisato intorno al 1895, a Mosca. Non a Varsavia come lei per tutta la vita aveva dichiarato, non si sa bene perché.

Alla ricerca di libertà ed indipendenza economica giurò a se stessa, come la Rossella O'Hara rovinata dalla guerra - che Dio le fosse testimone - che né lei, né i suoi cari avrebbero mai più subito patimenti e povertà. Il risultato fu perseguito con slava meticolosità.

Su suggerimento della sorella che studiava architettura, poi divenuta anch'essa molto famosa, iniziò a prendere lezioni di disegno, vedendo nell'arte un mezzo per raggiungere velocemente il successo.

Il talento non le mancava di certo. Frequentò solo i ricchi, i nobili e gli "arrivati" per trarne vantaggio. Provando orrore per i poveri e sporchi bohémien che scarabocchiavano su tela. Mirando allo chic esasperato della donna di mondo, non poté far altro che adottare l'ultimo grido in pittura, appunto il Déco, esattamente come bramava con zelo gli abiti costosi e sensuali ammirati su "Vogue".

Incominciò ad essere, al tempo stesso, attrice e testimone nel gioco delle apparenze sociali parigine. Pittrice di giorno e femme fatale la notte, aiutandosi con tanta cocaina per non perdere nessun colpo.

Vedeva nella sua unicità egoistica un bene prezioso, odiava tutto ciò che era borghese, mediocre e grazioso.

Le convenzioni andavano sistematicamente violate. Per questo ritraeva i consimili del suo entourage in modo spietato e aggressivo, dagli sguardi sprezzanti quanto il suo, con colori violenti ed insoliti.

Li capiva e li desiderava. Sia uomini che donne, senza vergognarsene e farne mai mistero neppure in vecchiaia.

La pittura non serviva per sublimare gli impulsi sessuali, anzi, era un mezzo per concretizzarli nel presente.

Negli Anni Folli nessuno pensava al domani, altrimenti non sarebbero stati così folli. Appunto.

I suoi amici erano tutti mammiferi di lusso, intelligenti idoli di perversità, perfide creature avide di vita e sesso onnivoro. La loro esistenza era costruita come un' opera d'arte, il resto è noia.


Soprattutto, erano sempre in movimento. Tanto che pure la scomposizione cubista delle superfici ora, con il Déco, diveniva anche un veloce compenetrarsi di differenti materiali, tutti dipinti nella stessa consistenza satinata e smaltata: velluto e metallo di un'automobile, la pelle e il raso d'una donna nuda, gelidi fiori di calla dentro un vetro.

Se il futurismo amava straziare l'udito, il Déco deliziò di feticismo il tatto.

Tutti i biografi di Tamara ricordano le sue mani ingioiellate, accarezzare sempre tutto e tutti. Forse anche troppo. Non a caso la sua pittura è d'effetto così tridimensionale, cioè scultoreo.

Ma lei fu soprattutto una grande ritrattista, anche se ora nessuno se ne rende conto. Ed è così lampante confrontando le foto dei personaggi veri da lei ritratti, oggi misteriosamente avvolti nell'oblio, rispetto alla guizzante introspezione psicologica fatta dalla tavolozza di Tamara.

Prima fra tutte Suzy Solidor (1900-1983), che fu ritratta nel 1933. In realtà è chiaro che la Lempicka s'ispirò per il quadro ad una foto che Man Ray scattò a Suzy nel 1929. Ma Tamara mise il motivo feticista dell'ascella, di dannunziana memoria, molto più in primo piano.

La Solidor dichiarava spudorata ai giornalisti: "Io, che sono così normale se non fosse per il mio spiccato gusto per le donne". Sosteneva di discendere da un corsaro e per anni fu l'amante della celebre antiquaria Yvonne de Bremond d'Ars. Scrisse pure tre romanzi di carattere marinaresco ma cantava così bene, col suo vocione, le canzoni dei marinai durante i pick-nic letterari con le amiche che alla fine aprì un suo night-club,"La Vie Parisienne". Dove la si trovava onnipresente, non solo in scena ma pure appesa alle pareti, come modella, in più di cento ritratti fatti dai suoi famosi amici Cocteau, Picasso, Picabia e dall'amante Lempicka.

Durante l'occupazione fu accusata di collaborazionismo perché intratteneva i nazisti cantando la canzone "Lili Marleen". Si riciclò nel dopoguerra, aprendo un nuovo locale in Costa Azzurra e morendo, per eternarsi, donò tutti i suoi ritratti al museo del posto. Un'altro personaggio del genere fu la duchessa Marika de La Salle (1887-1973), nata ad Atene, sposatasi nel 1905 con un ricco francese pronipote di San Giovanni Battista de La Salle.

Nel 1907 fu causa d'uno scandalo in Vaticano. Dopo aver aspettato mesi un incontro privato col papa, per ottenere l'annullamento del suo matrimonio, si recò ad un' udienza generale di Pio X. Quando gli passò vicino lo afferrò per la tonaca per attrarne l'attenzione. Ma tirò troppo maschia e il malcapitato settantaduenne, nonché futuro santo, stramazzò a terra nell'imbarazzo generale.

Accanita fumatrice di pipa, aveva a Parigi un'agenzia di artisti illustratori. Fu ritratta dalla Lempicka nel 1925. Unico quadro che la pittrice tenne sempre nella sua camera da letto e puro distillato del fetish lesbico.

Veri protagonisti della composizione sono i suoi stivaloni lucidi da "amazzone"( termine eufemistico con cui a Parigi s'erano ribattezzate le amanti delle donne nel circolo lesbo di Natalie Barney). Ma, a dire il vero, la sfacciataggine della sua mano in tasca la dice lunga sul suo bel caratterino e lei più che una cavallerizza assume così la grazia di un fattore. All'arrivo dei nazisti fuggì in Svizzera, dove visse fino alla fine in estreme ristrettezze finanziarie.

Ma non rinunciò certo a farsi progettare la decorazione del terrazzo di casa dall'amico futurista Prampolini. Meglio il lusso che niente.

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