Il camp è morto... viva il camp

28 gennaio 2005, "Pride", Novembre 2004

La sua rubrica "Peccati & Peccatori" è da anni uno degli appuntamenti di culto di Babilonia e Dagospia.com. Ma Giovanbattista Brambilla non è soltanto un cacciatore di aneddoti curiosi e notizie piccanti, è anche un fotografo tra i più popolari in Italia, come freelance e collaboratore dell'Agenzia Grazia Neri di Milano. Ha tenuto diverse mostre personali e pubblicato raccolte in tutta Europa, e con le sue immagini ha illustrato volumi di moda e di spettacolo, oltre a molte tra le più belle copertine di Pride.

Non basta: ha scritto il libro Marilyn Monroe: la Vita, il Mito tradotto con successo anche in America, e ha contribuito a una serie di studi internazionali su personaggi storici 'eccentrici', quelli che lui predilige.

Un talento attivo e poliedrico, insomma, con la mania del collezionismo e una dichiarata passione per il Camp, fenomeno di costume ormai sul viale del tramonto ma capace di segnare, in passato, alcune tra le pagine più importanti della cultura gay (e non solo).

E proprio di questo abbiamo deciso di parlare direttamente con Giovanbattista, per conoscere meglio sia lui sia ciò che ha significato - e significa tuttora - il termine Camp nella nostra società...


Partiamo dall'inizio: com'è cominciata la tua collaborazione con l’editoria gay e come hai scoperto di avere questa particolare 'vocazione' per peccati e peccatori?

Era il 1987, e Babilonia- che all'epoca era il regno di Giovanni Dall'Orto - aveva indetto una selezione per nuovi fotografi italiani. Io studiavo al D.A.M.S. a Bologna e, da completo autodidatta, decisi di partecipare, senza peraltro nutrire particolari aspettative. Le mie foto, invece, furono tra le più apprezzate, perché riuscivano a ricreare sensazioni da rivista di moda pur con soggetti non professionisti. Erano gli anni del boom del glamour americano da una parte e della pornografia dall'altra, e in Italia non era facile trovare immagini che riuscissero in qualche modo a inserirsi tra questi due estremi.

Poi mi sono offerto di diventare collaboratore fisso, a tutti gli effetti, anche come giornalista e nel maggio 1990 ho pubblicato il mio primo articolo. Su Greta Garbo...


E in questi anni hai portato alla luce, soprattutto dal passato, scoop clamorosi ed insospettabili, che ti hanno reso un vero punto di riferimento del gossip in Italia...

In realtà io non ho mai scritto niente che non fosse già stato pubblicato. Mi divertivo soprattutto a proporre delle spulciature di riviste, in particolar modo straniere, che contenevano notizie e spunti "compromettenti" debitamente documentati, non voci di corridoio o gossip nel senso popolare del termine. Soprattutto per evitare il rischio di querele, che nel settore dello spettacolo o della politica, naturalmente, è sempre molto alto.


Ne sa qualcosa Roberto D'Agostino...

È normale: essendo il sito in assoluto più cliccato d'Italia, è costantemente nell'occhio del ciclone.

Dagospia ha ricevuto decine di denunce, e questo nonostante venga comunque pubblicata soltanto una minima parte delle notizie di cui si sia a conoscenza. Ma in questi casi la prudenza non è mai troppa, e bisogna far valere la regola del "si sa ma non si dice"...

Di recente D’Agostino ha dovuto sborsare 50.000 Euro a Emanuele Filiberto di Savoia, per il solo fatto che aveva riportato nel suo sito, nel 2001, le foto dalla rivista Scandali in cui si vedeva lo stilista Montana che baciava il principe, sotto casa e a notte fonda…Purtroppo D’Agostino rincarò la dose con i suoi commenti, fin troppo pesantemente salaci e fantasiosi, che non piacquero al diretto interessato.


In termini di numeri qual è esattamente la popolarità di Dagospia e della tua rubrica "Peccati & Peccatori"?

Dagospia vanta il record italiano. Una cifra impressionante di presenze: sono svariati milioni di contatti ogni mese. Io sono passato da una media di 8 mila lettori al mese a più di 600 mila al giorno ogni volta che la rubrica viene messa on line.

Da una parte questa diffusione nazionale mi dà grande soddisfazione anche se la mia collaborazione è a titolo gratuito; dall'altra, però, c'è il rovescio della medaglia: il rischio di essere esposto a continui furti di tutto ciò che scrivo, e che molto spesso viene copiato di sana pianta da riviste patinate, agenzie di stampa e autori televisivi.

Il mio nome è conosciuto in tutte le redazioni, insomma, ma nessuno mi ha mai offerto l'opportunità di una collaborazione più concreta.

Tanto sanno che possono sempre avermi gratis plagiandomi.

E la stessa cosa mi succede puntualmente con l'attività di fotografo, dove l'essere saccheggiato è praticamente all'ordine del giorno.

Così come accade in tutti i settori creativi.

Dove, del resto, le idee non sono mai di chi poi finisce per specularci sopra. Inoltre io pubblico le mie o-culate critiche cinematografiche (Occhio-Fino) su Mondoculto.com,per la mia carissima amica Stefania D'Alterio, e ho una rubrica mensile su Gay.it.

Su quest’ultimo ho avuto un record assoluto di contatti, 700 mila, in meno di 24 ore, per un mio articolo sui gaissimi risvoltinidel programma calcistico Campioni.

A volte Internet mi spaventa.


Che tipo di rapporto c'è tra te e Roberto e D'Agostino?

Il nostro è un rapporto cordiale, ma soprattutto telematico o telefonico.

Lui sta a Roma, io a Bergamo.

In un'occasione mi è capitato anche di fotografarlo nella sua bellissima e folle abitazione. Piena di cazzi finti, statue di Santi, capolavori d’arte veri e persino un’immagine di Santa Rita stampata sulla tavoletta del w.c.!

Sono molto grato a D’Agostino, mi ha capito al volo.

I miei eccessi fanno perfetto pendant con le sue snobissime follie V.I.P..

Il mio verbo gay ha così avuto occasione di raggiungere un vastissimo pubblico.

E’ un modo d’informare e fare cultura divertendo. Soprattutto auto-ironico.

Dal punto di vista dei contenuti mi lascia completa libertà, e devo riconoscere che in privato D’Agostino è molto più simpatico rispetto al suo personaggio pubblico. Oltretutto lui è il geniale regista del film culto Mutande Pazze e del saggio Sbucciando Piselli con Federico Zeri.

I più grandi vertici sopraffini ed assoluti che il camp italico abbia mai raggiunto.


Quello di grattare le verità apparenti per andare alla ricerca di ciò che vi si nasconde al di sotto è anche uno dei dogmi della cultura Camp, non è così?

Esattamente, ed è proprio questa la mia vera passione: cercare testimonianze di un tipo di costume che ha avuto il suo periodo di maggiore splendore tra gli anni 60 e la fine degli anni 80, e che oggi è definitivamente tramontato e spesso volgarmente scambiato per Trash...


Dunque che differenza c'è tra Camp e Trash?

Il Camp è sostanzialmente una chiave di lettura di un linguaggio che appartiene in modo quasi esclusivo al codice degli omosessuali.

Non a caso il termine "camp" indica proprio un campetto, una cerchia ristretta di amici 'parrocchiani': chi non è omosessuale molto difficilmente riesce a cogliere questa chiave di lettura. E’ una cultura alternativa, nata per autodifesa da quella “ufficiale” eterosessuale. Un modo per sopravvivere. Si sviluppò soprattutto intorno al vecchio cinema hollywoodiano, alla musica d’Opera o Pop, piena di riferimenti e atteggiamenti culturali condivisi in tutto il mondo.

Il trash, al contrario, è un evento di costume principalmente etero, cominciato con la riqualificazione di un certo cinema sexy di serie Z degli anni 70 e diventato oggi un'etichetta con la quale si tende a giustificare - e ad apprezzare - l'assoluta mancanza di qualità di un prodotto popolare.

Il Trash non porta nessun tipo di valore o contenuto. A parte il gesto dissacratorio, ha forse una flebile e divertita auto-coscienza dell’alienazione moderna.

Ma è sempre autodistruttiva ed infantile. Alla lunga diventa d'una noia mortale.

In entrambi i casi gioca un ruolo fondamentale l'approccio al kitsch, che nel Camp è sempre una maschera, l'involucro esterno portato all'eccesso.

Mentre nel Trash può anche non esistere, è ininfluente.

Andy Warhol era completamente Camp.

E’ l’intelligenza che corrode. Così è in televisione Fabio Canino a Cronache Marziane.

Cosa ha permesso al Camp di diventare il fenomeno sociale che è stato, e cosa ne ha decretato la fine e la scomparsa?

Il Camp, per sua natura sotterranea, è una forma di ribellione elitaria ad un certo tipo di repressione sociale e culturale.

E’ un costruirsi il proprio mondo al di sotto di quello istituzionale: per questo, in qualche modo, la sua esistenza è funzionale all'epoca e alla cultura dominante in un preciso momento storico.

Oggi la cultura gay è uscita largamente allo scoperto, al cinema, in televisione, sui giornali, nella politica e nella moda.

Di conseguenza, il Camp è stato quasi completamente assorbito e assimilato, o sostituito da nuovi miti senza valori come il computer o gli stupidissimi e violenti cartoni animati giapponesi, giusto per citarne un paio...

La nostra è l’epoca della globalizzazione mondiale.

La cultura deve essere chiara a tutti, così ingloba solo piccoli frammenti comuni a tutti senza approfondire più nulla.

L’importante è intendersi al volo, chi si ferma a riflettere è perduto: lo guardano come un povero sfigato.


Dove si conservano oggi le tracce della cultura Camp del passato, o meglio: dove bisogna 'scavare' per ritrovare tutto il materiale che tu stesso ami riportare alla luce?

Sul magico Ebay.com in Internet e soprattutto nelle bancarelle dell'usato ai mercatini.

Sono veramente una fonte inesauribile, e spesso involontaria, di cultura gay. Accanto a vecchi numeri di Playmen o di giornaletti soft-porno degli anni 80, infatti, non è difficile trovare anche immagini più curiose, particolari e, in un certo senso, 'compromettenti'.

Principalmente sono di due categorie: quelle rarissime esplicitamente “omo”, con ragazzi vistosamente gay ritratti in compagnia di amici o amanti, o foto di travestiti per lavoro o per passione....e poi quelle classiche dei militari, in cui l'apparenza eterosessuale nasconde dettagli per noi ambigui che è divertente cercare, intuire e reinterpretare.

Per poi svelarli integralmente con una forte dose d’auto ironia.

Sì, il Camp è puro “sputtanamento”.


Quali sono i soggetti che tendono a ricorrere più spesso?

Senza dubbio i giovani militari o studenti, ritratti sempre in pose analoghe indipendentemente dalla provenienza e dal periodo storico a cui risalgono gli scatti. Molto spesso sono ritratti nell'atto di farsi degli scherzi, o di far finta di toccarsi un seno o una "patonza" che non esiste, o di travestirsi per gioco in camerata.

O, ancora, mentre si tirano giù i pantaloni per mostrare il popò o quando vanno al gabinetto in compagnia: in questo senso c'è una evidente somiglianza tra i soldati americani, per esempio, e quelli a loro contemporanei della Germania nazista.


Un personaggio come Platinette, al giorno d'oggi, può essere visto come l'ultimo baluardo del Camp, almeno in Italia?

Sì, perché dietro al suo travestimento nasconde valori importanti da esprimere e da difendere, e lo fa quasi sempre con grande intelligenza e cultura.

Smaschera e sbriciola i pregiudizi che trova sul suo cammino.

E’ l’unica drag con le palle.

Tutte le altre, al suo confronto, sono solo sguinzie travestite e sessuomani in play-back. Volgari, improvvisate e perennemente con battute dal doppio senso pesante. Se solo avesse più spessore e si prendesse meno sul serio, per esempio, potrebbe essere sicuramente più Camp, nel senso autentico del termine, Paolo Limiti...Tanto simpatico e spontaneo in privato, quanto noiosamente stuccoso ed irritante in pubblico.

Uno che proprio non ci riuscirà mai è Cristiano Malgioglio. Lì si arriva ad un paradosso border-line con non so neppure io che cosa. Un groviglio mentale inesplorato.

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