Intervista a Giorgio Arlorio

27 marzo 2020

Collaborando con registi diversissimi come Mario Camerini e Gillo Pontecorvo, come Carlo Lizzani e Sergio Corbucci, lo sceneggiatore e autore televisivo Giorgio Arlorio (1929-2019) è stato capace di alternare, nella propria scrittura, il massimo rigore stilistico con la leggerezza. Una leggerezza comunque “consapevole”, studiata, che è la qualità più evidente di una delle (poche) commedie italiane che hanno contribuito attivamente a un mutamento nella percezione dell’omosessualità da parte del grosso pubblico: La patata bollente (1979), sceneggiata da Arlorio con Enrico Vanzina, e diretta dal padre di quest’ultimo, Steno.

Ecco la trama del film in poche parole, per chi non la conoscesse: Bernardo Mambelli, un operaio comunista, salva un ragazzo, Claudio, dal pestaggio che sta subendo da parte di un gruppo di fascisti. Lo porta a casa propria e scopre che la ragione del pestaggio è l’omosessualità di Claudio; la rivelazione mette a nudo i pregiudizi del Mambelli – non dissimili da quelli dei suoi avversari politici – ma la frequentazione con Claudio lo spinge a una crescita umana, contrastata però dai preconcetti dei compagni di partito. Per evitare di compromettere la reputazione dell’amico, Claudio – che pure prova dei sentimenti nei confronti di Mambelli – provoca una rottura del loro rapporto e parte alla volta dell’Olanda, dove si sposerà con un ragazzo locale. Il film si conclude con la visita di Mambelli, accompagnato dalla sua fidanzata, a questa neonata coppia. Claudio è finalmente felice e realizzato.

Intervistato per il documentario Ne avete di finocchi in casa?, Arlorio ci ha spiegato nei più minuti dettagli l’origine dell’ispirazione per questo film, cui era visibilmente molto legato:



Qual è stata l’origine de La patata bollente?
In origine avrebbe dovuto essere una delle due storie che avrebbero composto un movie-movie diretto da Nanni Loy, ed era ispirata a una trasmissione che – per come la ricordo – era straordinaria, andata in onda sul secondo canale della RAI di allora. Questa trasmissione si chiamava Il mondo dei vecchi [NdA: in realtà Vecchio mio, a cura di Giovanni Mariotti], ed era fatta da un documentarista con una straordinaria capacità di non creare shock nelle persone e negli ambienti dove conduceva le proprie interviste. Una capacità che ci aveva colpito moltissimo, a Nanni e a me, perché noi in quell’epoca avevamo realizzato, con successo crescente, Specchio segreto, utilizzando – diciamo pure – un trucco, una macchina da presa nascosta. In quel momento infatti ci sembrava assolutamente impossibile ottenere dai personaggi intervistati, con telecamera e microfono puntati addosso, una loro realtà, perché c’era ancora un timore, una paura [NdA: nei confronti della televisione]. Questo regista, invece, era di una bravura straordinaria nel farsi accogliere nelle case. Questa trasmissione, Il mondo dei vecchi, mi pare che fosse strutturata in cinque puntate: il mondo dei vecchi nelle campagne, nella società contadina; il mondo dei vecchi in un ospizio (mi sembra fosse presso Trieste) che accoglieva gente di vario tipo, eccetera. Ed era un’inchiesta bellissima. In particolare, la quinta storia [NdA: in realtà si tratta della prima puntata, A Torino in un giorno di neve, andata in onda il 3 giugno 1978] riguardava un personaggio che raccontava la propria vita di operaio torinese, comunista e omosessuale. Raccontava con grande semplicità una storia che oggi potrebbe sembrare assurda, ma che allora era inaudita, per la “contraddizione” tra queste due appartenenze. Ciò accadeva in un quartiere popolare di Torino, ai margini della campagna, nella casetta, attorniata da un orticello, dove questa persona abitava. La mia ispirazione per la prima versione de La patata bollente, che avrebbe dovuto durare quarantacinque minuti, viene di lì, tant’è vero che anche in seguito ho cercato di incontrare questo regista, di rivedere la trasmissione, ma non ci sono più riuscito.

In quale momento si è deciso di trasformare questa stesura originaria de La patata bollente in un lungometraggio un po’ più diluito?
Si può discutere su come sia avvenuto. Entrambe le storie previste per questo movie-movie avevano come tema generico la marginalità e dovevano avere una loro interna sinergia. L’altra storia nasceva proprio da Specchio segreto, ed in seguito anch’essa è diventata un film autonomo diretto proprio da Nanni Loy: Cafè Express. Probabilmente ha avuto la meglio la decisione di sfruttare le idee per due film invece che per uno solo, dato che tutte e due le storie permettevano un approfondimento...

un discorso totalmente diverso.
La storia di Cafè Express, poi, era molto legata a Nanni Loy in persona che l’aveva vissuta in Specchio segreto. Dal punto di vista produttivo, penso che l’idea sia stata felicissima, perché poi i due film sono stati dei successi ognuno per conto proprio.

Anche il fatto che siano stati due registi molto diversi a realizzarli ha sicuramente contribuito al buon esito…
Molto diversi, ma comunque amici, non c’è stata nessuna lotta o guerra. Forse quella che è diventata La patata bollente nelle mani di Steno – magnifico regista e magnifica persona nella vita – e di suo figlio Enrico per la scrittura, probabilmente si è indirizzata verso le migliori qualità dello stesso Steno, che sono una leggerezza, una rapidità, una spigliatezza tipiche della grande commedia all’italiana. Anche Enrico, come “ricercatore” (tutti gli sceneggiatori sono per forza ricercatori), è uno che si muove molto agilmente in un ambiente più allegro, più vivace. Il film però non è assolutamente definibile come un’altra cosa rispetto al progetto iniziale, ma ne è lo sviluppo naturale, adeguato ai talenti di chi lo ha scritto e di chi lo ha diretto.

Anche l’ambientazione è cambiata.
Sì, forse quello dell’ambientazione è stato il cambio più importante, perché i primi sopralluoghi li aveva fatti Nanni Loy, che insisteva moltissimo per il massimo del realismo: era stato nei quartieri popolari milanesi, nei grandi casamenti, nelle zone operaie e comuniste. Tutto questo, nella versione breve, veniva usato per ottenere effetti anche comici. La trasposizione in un mondo più vivace ha portato anche gag più surreali, come lo sciopero dichiarato dal Mambelli, il personaggio di Renato Pozzetto, che ferma la catena di montaggio per protestare contro l’inquinamento nel luogo di lavoro: va dal padrone per dimostrare che cazzo di vita sta facendo, si picchia sul torace e comincia a sputare veleni. Ma tutto questo va benissimo, e deve comunque qualcosa all’operaio della trasmissione Il mondo dei vecchi.

Come si è arrivati alla scelta del casting, invece?
Il casting è nato già col progetto del doppio film: una storia era affidata a Nino Manfredi, un protagonista nato, e l’altra a Pozzetto. A un Pozzetto – da me ammirato per il suo cabaret assieme a Cochi, che è straordinario ancora visto oggi – che usciva un po’ dai suoi schemi. Evidentemente il personaggio di Mambelli ha suscitato in Pozzetto una curiosità: chi sono io se divento Mambelli? Infatti è bravissimo, pur senza rinunciare ad alcuni numeri dei suoi, ad alcune armi del mestiere, ma facendole rientrare in una recitazione che è a suo modo – per quanto mi riguarda – assolutamente credibile.

La scelta di Massimo Ranieri per il ruolo del ragazzo salvato da Mambelli è anch’essa particolarmente felice: è capace di aggiungere delle finezze psicologiche, senza rendere mai il discorso pesante, didascalico.
E soprattutto rende la bellezza del personaggio. Massimo era molto bello, molto candido. Era Metello [NdA: Arlorio si riferisce al personaggio creato da Vasco Pratolini e interpretato da Ranieri nell’omonimo film di Mauro Bolognini, nel 1970], ma usciva da Metello rivelando un’altra realtà per la quale evidentemente anche lui provava interesse. Secondo me, con Pozzetto fa una coppia straordinaria. E la regia di Steno è imbattibile per l’armonizzazione che riesce a dare a questo duo inedito: i tempi e la misura nella scrittura sono perfetti. Mi viene da ridere perché io – forse con semplicismo – avevo pensato a Renato Zero, inizialmente. Forse era un’idea sbagliata perché spingeva verso un cliché, mentre Ranieri porta un valore aggiunto, oltre alla sua naturale bravura. Anche da questo si valuta la qualità della regia di Steno: in quel film tutti gli attori aggiungono qualcosa di loro, più che altrove. Io sono ammirato poi dalla soluzione del personaggio della Fenech, la quale è bravissima, oltre che bellissima, ed è totalmente credibile.

Un’altra differenza tra la prima sceneggiatura de La patata bollente e quello che poi si vede sullo schermo, sta nel finale, che nel film è più morbido, più consolatorio di quanto non fosse nella versione originale.
Nella prima versione, l’inizio era esattamente corrispondente al finale. All’inizio Mambelli interrompe la catena di montaggio per protestare con il padrone per l’inquinamento e per le condizioni del lavoro. Anche nel finale gli operai sono alla catena, e di nuovo Mambelli ferma la catena perché sul nastro trasportatore è comparsa una cosa assolutamente inconsueta: un enorme mazzo di fiori e una busta. Prende la busta, vede che dentro c’è una lettera, la guarda in silenzio, poi decide di leggerla. Quello che dice è semplicemente questo: «Quando io ho dato dei fascisti a te e ai tuoi compagni, e ho detto che siete peggio di tutti, perché siete vecchi... io vi ho offeso, ma queste cose non le pensavo. Era l’unica maniera – forse la peggiore, ma l’unica – per restituirti una vita. In qualche modo, tu e i tuoi compagni eravate più vicini di altri a raggiungere una maggior solidarietà e vicinanza, una conoscenza reciproca che può migliorarci tutti, ma non ci siamo ancora. Quello che vi auguro è di continuare questo cammino che avevate già cominciato, anche se non so quanto coscientemente». Detto questo Mambelli fa una pausa e legge l’ultima frase: «Ci riuscirete?». Punto interrogativo. Inquadratura delle facce dei suoi colleghi e il film finisce. Quindi in questa prima versione c’è un invito, che è anche un’ammonizione e un dubbio, molto importante politicamente. Insomma, un finale più netto e preciso.

Si invitano apertamente i comunisti alla riflessione.
Il personaggio di Ranieri li ama, ma non è completamente sicuro della loro crescita.

Invece il finale rimaneggiato prevede uno spostamento in Olanda…
Sì, una soluzione felice nella separazione.

E l’idea che la felicità per gli omosessuali si possa trovare altrove, fuori dall’Italia, allontana appunto la “patata bollente” dai comunisti nostrani…
La versione originaria aveva una volontà di provocazione più forte, ma questo era favorito dal fatto che, con una durata di quarantacinque minuti, la costruzione della sceneggiatura doveva essere più semplice. La ragione della riscrittura deriva anche da un’altra cosa, cioè che Enrico Vanzina conosceva perfettamente il grande talento del padre nella commedia, e quindi ha lavorato in vista di una regia, quella di Steno, che nel film – si può pensare quello che si vuole – è impeccabile anche umanamente ed eticamente.

Secondo te il film ha avuto una risonanza, ha indotto gli aderenti al PCI a un ripensamento delle proprie posizioni riguardanti l’omosessualità?
Non so se possiamo attribuirgli questo merito, ma certamente ha smosso qualcosa in qualcuno. Il film è stato fatto uscire a Milano – mi pare – oltre la metà di giugno, quindi già quasi fuori stagione, come per dire «vediamo cosa tiriamo fuori». Eppure ha avuto un successo straordinario: entro la fine di luglio mi pare che abbia incassato qualcosa come cinque miliardi. Sicuramente qualcosa si è mosso, perché mi sono arrivate notizie, lettere, anche di gruppi di giovani. Lettere, insomma, di comunisti non tanto scontenti, quanto imbarazzati [NdA: dall’atteggiamento del partito in materia di omosessualità].

Essendo giunto a pochi mesi di distanza dall’uscita de Il vizietto, il successo de La patata bollente è stato visto dalla stampa come una derivazione del film di Molinaro. Ti ha dato fastidio questo aspetto?
Ho sempre attribuito a una certa faciloneria il paragone col Vizietto. La patata bollente è un’altra cosa, e qualcuno – qualche critico come Morando Morandini – l’ha notato e l’ha scritto: «si fa un errore». Al Vizietto io non ci ho proprio pensato. Però sia chiaro: vedendo Il vizietto mi sono divertito moltissimo. Sono talmente straordinarie le interpretazioni di Serrault e Tognazzi, sono due mondi in conflitto che si amano, malgrado tutto il casino: «Quanto mi rompi le palle, però ti amo!» è la posizione di Tognazzi nel film. Quindi perché non dire semplicemente che, come spesso accade, un argomento era nell’aria e l’occasione ha prodotto due film diversi, ma entrambi non indegni?

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