Genet: la verità delle bugie

4 aprile 2004

Scrivere una biografia è un compito molto impegnativo, soprattutto in un'epoca che ha definitivamente liquidato la realtà a favore della fiction. Raccontare la storia "vera" di una vita significa rimettere le cose a posto, classificarle con metodo per archiviarle in una memoria - o più spesso in un oblio - senza segreti né possibili colpi di scena. A Jean Genet, che poi è l'involontario protagonista della propria biografia riscritta da Edmund White (di recente tradotta per il Saggiatore), non poteva andare a genio un'indagine tanto sistematica e per definizione votata a mettere in dubbio la sua reputazione di falsario (cioè di narratore) della propria leggenda. Lui che proclamava "la verità non mi interessa" e ostentava la virtù dell'inganno, si è giurato nemico, fin che ha potuto, di schedature e interpretazioni, proprio perché fin dall'infanzia gli toccò adattarsi a subirne l'effetto doloroso. Le misurazioni dei dati segnaletici, al riformatorio e in galera, furono il timbro della sua condizione di paria, su cui poi Genet trovò una lieve rivincita riutilizzando l'antropometria istituzionale per specificare anche la lunghezza e la circonferenza (sempre notevoli) del membro in erezione dei galeotti dei suoi romanzi. Ma oltre all'esterno, anche l'interno del giovane Genet fu precoce oggetto delle curiosità di educatori, giudici e psichiatri.
Da queste attenzioni lui si difese creando la propria leggenda e facendosi poeta. Con ispirazione dichiaratamente autobiografica scrisse versi e romanzi per confondere la vita nell'opera. Non contento, tesseva un innocente tappeto di bugie su di sé nelle conversazioni con gli amici e nelle rare interviste che concedeva. Si ribellava alle pretese di controllo di chi voleva stabilire il vero intorno alla sua persona o decifrare il senso della sua esperienza poetica. Ed è per questo che quando gli chiesero cosa avesse provato dopo aver letto Santo Genet, il poderoso studio di Jean Paul Sartre dedicato alla sua vicenda umana e letteraria, rispose: "Una specie di disgusto, perché mi sono visto nudo, e denudato da qualcuno che non ero io".
Con lo stesso spirito, del resto, metteva in croce i registi dei suoi enigmatici lavori teatrali, quasi sempre rei di averlo completamente frainteso. Di infedeltà accusava naturalmente anche se stesso, riscrivendo di continuo i propri lavori o rinnegandoli per sempre. (E forse fu per scansare il confronto con l'irreversibilità dell'immagine filmata che girò solo un cortometraggio, il mitico Un chant d'amour, e abortì regolarmente tutti gli altri progetti cinematografici.).
Non poteva dunque piacere a Genet l'intenzione metodica del biografo di scoprire tutti i suoi trucchi e misteri per condannarlo infine alla verità storica. Ed è proprio così che ce lo descrive Edmund White, con l'indulgenza tipica dei vivi: ribelle come un bambino che si rifiuta di prendere la medicina, oppositore strenuo dei fatti fino a che il tempo gliel'ha concesso. Poi qualche cosa è comunque destinato a venire a galla: se non la verità, quantomeno un racconto non più manipolabile dall'interessato.
Su un Genet ormai impossibilitato a reinventarsi si accanisce il biografo, preoccupato proprio di ricollocare i fatti nella loro prosa quotidiana per tracciare in modo distinto, accanto a quello poetico, il profilo umano del grande scrittore francese.
Il risultato di questo scrupoloso districare la realtà convenzionale dal mito è che in fondo tutte le frottole di Genet sul proprio conto erano veniali. Ladro, traditore e omosessuale confesso, mentiva molto sui particolari ma mai sulla sostanza. Romanzava la propria storia senza tradirne il significato, fingeva perché "bisogna mentire per essere veritieri" (e anche perché era un po' vanitoso). Tuttavia, su chi fosse Jean Genet (un delinquente di mezza tacca, una checca, una creatura assetata d'amore fino al vampirismo, un cinico pessimista e insieme uno speranzoso adoratore dei perdenti) voleva essere sincero. L'aveva scelto da bambino di fronte allo sgomento di scoprirsi figlio della pubblica assistenza, con inclinazioni per il furto e per i suoi compagni, o anche per maschi più maturi. Come scrive lo stesso Genet, "il solo modo per evitare l'orrore dell'orrore è abbandonarsi a esso".
Non potendo essere buono, sarebbe stato cattivo perché così lo voleva l'ordine morale e sociale. Alla luce del sole, però. E per giunta con la volontà di smascherare dall'alto della sua scelta abietta l'ipocrisia dei borghesi che desiderava, sotto forma di lettori, come pubblico della sua vendetta su loro stessi. Tutto ciò sembra tradire un discreto bisogno di autenticità, oltre a costituire una posizione morale che farà scuola e che possiamo ben includere nella genealogia dell'orgoglio gay.
La determinazione di White nel ricercare la verità dei fatti si risolve quindi in una sostanziale conferma, o persino ulteriore abbellimento, della leggenda di sé creata da Genet e scolpita nel marmo dai suoi libri e da Sartre. Genet, messo alla prova dei suoi stessi inganni, ne esce risplendente.
Chi semmai riporta qualche ammaccatura è Sartre, rimasto a volte vittima dei falsi aneddoti di Genet, nonché indiziato di aver commesso nei suoi riguardi qualche forzatura ideologica. Per esempio sul ruolo da attribuire all'omosessualità nella scelta del bambino Genet di diventare un "cattivo soggetto", scelta insieme di ribellione e di subalternità all'ordine costituito, che avrebbe nutrito la sua vocazione di scrittore. Sartre - dice White - fa del furto una chiave di volta della leggenda di Genet (divenne ladro perché doveva possedere qualcosa per essere qualcuno; e lui, trovatello, non possedeva nulla).
Dalla decisione di rubare, per dichiarare guerra a un Bene che d'altronde non era neppure previsto per uno come lui, Sartre fa dipendere anche la scelta di diventare omosessuale, esaltando con ciò il ruolo della libertà umana ("Proust - scrisse Sartre - ha mostrato la pederastia come destino, Genet la rivendica come scelta"). Ma né White né il maturo Genet, entrambi omosessuali, se la sentono di sottoscrivere questo nesso causale. Certamente c'è un legame tra l'omosessualità di Genet e la sua inclinazione al furto, ma per White è chiaramente la prima a produrre la seconda ("Genet associava la colpevolezza del furto a quella dell'omosessualità, che è un altro modo di rubare, un'altra forma di appropriazione indebita").
Quanto al soggetto della controversia, Genet riteneva di non aver scelto proprio nulla, né di rubare né di amare gli uomini. "Cosa ne sappiamo? - si domandava in un'intervista del 1964 - Si sa forse perché un uomo sceglie questa o quella posizione per fare l'amore? L'omosessualità mi è stata imposta come il colore degli occhi, il numero dei piedi. Da bambino, ho avuto coscienza dell'attrazione che esercitavano su di me gli altri ragazzi, non ho mai conosciuto l'attrazione per le donne. Ed è soltanto dopo aver preso coscienza di questa attrazione che ho 'deciso', 'scelto' liberamente la mia omosessualità, nel senso sartriano del termine. In altre parole e più semplicemente, ho dovuto adattarmi a lei pur sapendo che era condannata dalla società".
Negli anni Quaranta, "in un'epoca in cui - fa notare White - la maggioranza degli omosessuali non provava altro che vergogna", Jean Genet scriveva dell'omosessualità come del suo "più caro tesoro", trasponendo sulla carta senza nessuna reticenza le sue fantasie e le sue esperienze erotiche. I suoi personaggi e le sue storie, gli eroi delinquenti come le "pazze" che li amano, sono icone dell'immaginario gay, di cui Genet è stato certamente uno dei grandi divulgatori.
Al tempo stesso non c'è molto di dirompente nella concezione che Genet viveva e rifletteva dell'omosessualità. Quella che potremmo chiamare la sua "visibilità" non poteva essere che il reciproco della vergogna di tutti gli altri froci, l'eccezione che conferma la regola. In realtà, neppure a lui passava per la mente di poter mettere davvero in questione il valore negativo dell'omosessualità, perché questo valore era connaturato alla sua scelta di stare dalla parte del torto. Si limitava, per così dire, a gridarlo forte quando chiunque altro preferiva una maggiore discrezione.
Questo, beninteso, era già un modo di uscire di corsa dal passato, ma la liberazione gay non rientrava negli orizzonti di Genet, che non poteva condividerne i presupposti, storicamente plausibili solo quando lui aveva già superato da un pezzo il periodo dell'educazione sentimentale.
La sua visione dell'omosessualità, dall'aura maledetta alla rigida definizione di ruoli maschili e femminili, è tutta inscritta nella tradizione, così come le sue passioni per giovani uomini etero o bisex. L'omosessualità era per lui vita, destino e poesia, ma non politica, cioè non qualcosa da cui attendere una speranza collettiva di cambiamento. Non è un caso se nella fase più intenzionalmente politica di Genet, dagli anni Cinquanta in avanti, l'amore tra uomini smette di essere per lui un tema letterario rilevante. In un momento di pessimismo e di blocco creativo comunicava a Sartre una sua teoria in cui associava l'omosessualità alla sterilità e alla morte ("In ogni caso, il significato dell'omosessualità è questo: un rifiuto di continuare il mondo"). Benché dettata dallo sconforto, una frase del genere non lascia molti margini all'agire politico.
Questo non comportava tuttavia nessuna ostilità di principio verso le novità che gay e femministe preannunciarono dopo il '68. Genet scelse di impegnarsi contro il razzismo e l'imperialismo, a fianco delle Pantere Nere negli Stati Uniti e successivamente a favore del popolo palestinese. Non prese direttamente parte ai movimenti per la liberazione sessuale, ma assunse nei loro confronti un atteggiamento benevolo. In Francia prestò il suo nome a una delle prime pubblicazioni del movimento gay e in America fu all'origine di un inatteso quanto storico avvicinamento tra gli omosessuali rivoluzionari e le Pantere Nere. Nel 1970, narra White, le sue critiche contro l'abitudine di dare del finocchio agli avversari politici spinsero Huey Newton, uno dei leader delle Black Panthers, a pentirsene pubblicamente e ad affermare che c'erano affinità tra i movimenti di liberazione delle donne e dei gay e la causa del potere nero.
Genet comunque rimaneva tiepido sulle potenzialità rivoluzionarie del soggetto omosessuale e parte dei suoi dubbi derivava dalla conoscenza della materia. Come spiegava in un'intervista del 1971: "Non si è rivoluzionari solo perché si è omosessuali (...). Diciamo che l'omosessualità dovrebbe condurre l'omosessuale a mettere il sistema sotto accusa; ma in realtà il sistema è fonte di tanta umiliazione, paura e panico, ed è spesso talmente più forte, che costringe l'omosessuale a dissimulare e a inchinarsi a esso".
Ovviamente Genet non poteva nemmeno concepire un'omosessualità che da trasgressione si facesse norma, secondo la tendenza prevalente nei movimenti gay dall'inizio degli anni Ottanta. E chissà come avrebbe potuto commentare cose tipo le unioni civili, dopo essersi espresso così in Nôtre Dame des fleurs: "Le nostre coppie, la legge delle nostre Famiglie, non assomiglia a quella delle vostre Famiglie. Ci si ama senza amore. Non hanno carattere sacramentale. Le Zie sono le grandi immorali".
Il nido d'amore costituito dalle pareti domestiche non era in effetti l'ideale di Genet, dal momento che trascorse quasi tutta la vita in albergo - quando non era in carcere - e che aveva la curiosa abitudine di incoraggiare i suoi amanti a trovarsi una donna.
Dopo l'eros mitico di galera e di caserma e la passione per un eroe senza macchia come Jean Decarnin, giovane intellettuale comunista morto sulle barricate della liberazione di Parigi, Genet si attenne per il resto della sua esistenza a uno schema di relazione fisso: con giovani uomini che ricordavano lui stesso molti anni prima, di cui diventava padre, pedagogo e talent scout.
Si dedicò con zelo religioso a gestire una carriera da acrobata per Abdallah o da pilota di formula uno per Jacky Maglia, a comprare case per i suoi amanti che si sposavano e a procurarsi tutto il denaro necessario per mantenere svariate famiglie (la sua generosità era senza limiti). Attraverso di loro plasmava altre storie e viveva altre vite, cedendo una volta di più alla vocazione del romanziere.
Non bastasse, più d'uno degli amori di Genet finì i suoi giorni prematuramente, come i fanciulli criminali che avviava spavaldi alla ghigliottina nei suoi libri. Di Decarnin abbiamo detto. Abdallah il funambolo si suicidò a ventisei anni. Mohammed El Katrani, l'ultimo della serie, andò a schiantarsi contro un albero con un'auto ricevuta in dono proprio da Genet. La leggenda nera e la verità storica, ancora una volta, scoprono di avere inquietanti punti di contatto.
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